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Lukaku e il razzismo nel calcio

Lukaku e il razzismo nel calcio - immagine 1
Un nuovo appuntamento con "Loquor", la rubrica a cura di Carmelo Pennisi

Carmelo Pennisi

“Qui alla NASA la pipì ha lo stesso colore”. Da il “Il Diritto di Contare”

Mary, una persona con una mente da ingegnere dovrebbe essere ingegnere, non puoi fare solo calcoli per il resto della vita”. “Signor Zielinski, io sono una donna nera, non prenderò in considerazione l’impossibile”. “Ed io sono un ebreo polacco i cui genitori sono morti in un campo di sterminio, e adesso sono sotto una navicella spaziale che porterà un astronauta verso le stelle. Credo sia lecito dire che stiamo vivendo l’impossibile”. Questo splendido dialogo da Oscar tratto dal film “Il Diritto di Contare” sarebbe da far ascoltare cento, e cento volte ai “protagonisti” degli insulti razzisti verso Romelu Lukaku dell’ultimo Juventus Inter, perché se costoro continuano ad insistere con la loro visione del mondo in bianchi e neri, noi si ha il dovere di non arrenderci al possibile miserabile a volte messo in scena nella quotidianità, fosse una partita di calcio o un amico albanese ruvidamente fermato all’uscita di un supermercato per un controllo anti taccheggio, solo perché albanese.

L’episodio dello “Juventus Stadium” dimostra, tristemente, quanto si abbia fame di apartheid, di additare il diverso, in una sorta di bulimia da complesso di superiorità da soddisfare continuamente, e non importa se lo facciamo in diretta televisiva, anzi: meglio che il mondo guardi fin dove possiamo arrivare, ovvero la direzione diametralmente opposta alle stelle. Mentre ci si chiede cosa passi per la testa di gente teoricamente educata allo sport e non ai metodi usati in una piantagione di cotone degli Stati Uniti Confederati del generale Robert Edward Lee, la sensazione è quella di fare sempre troppo poco  contro questi improvvisati raggruppamenti da revanscisti  da “Ku Kux Klan”, balordi convinti di inneggiare a codici di comportamento non scritti organici all’idea di essere superiori per caratteristica e per nascita. Boiardi della razza bianca a cui il rifiuto di Rosa Parks di cedere, nel 1955, il suo posto a sedere su autobus a un passeggero bianco deve sembrare un racconto horror di Stephen King, invece dell’inizio di una marcia verso una storica vittoria davanti alla Corte Suprema degli Stati Uniti, con la dichiarazione di incostituzionalità  della segregazione razziale sugli autobus.

Ai convinti assertori del Lukaku  obbligato a rivestire l’aplomb del perfetto professionista, e quindi da condannare per aver reagito contro dei tifosi (ma dobbiamo davvero definirli così?) juventini fino a quel momento scatenati nel sottolineare il colore della sua pelle, sarebbe bene consigliare di andarsi a rileggere alcuni considerazioni di Nelson Mandela sul tema della tortura psicologica, ben più grave dell’aggressione fisica, sofferta dalla popolazione nera durante l’apartheid: “È stata una tortura psicologica impossibile da descrivere a parole”. Infatti, nonostante tutte le parole spese sotto ogni forma da almeno 150 anni, l’arbitro Davide Massa ha pensato di espellere il giocatore interista “per azione provocatoria”, ricevendo il plauso sulla gestione dei cartellini dal Designatore Arbitrale Gianluca Rocchi. “Tutto il mondo è un palcoscenico”, scrive William Shakespeare, e da dietro le quinte può sempre spuntare qualcosa di inatteso a complicare la routine davanti alla platea, ma ciò non giustifica non essere pronti a capire le situazione e a trovare le giuste reazioni. Specie se si è protagonisti lautamente pagati, come gli arbitri oggettivamene sono. Ma quest’ultimi non sono una razza a parte rispetto alla cultura in cui sono cresciuti e operano, un contesto dove, sorprendentemente, si continua da più parti a sostenere l’assenza del razzismo in Italia.

Eppure, per esempio, ci sono fior di intellettuali e commentatori adusi a definire “intellettuali della Magna Grecia” tutti coloro, nati nel sud Italia, ai loro occhi meritevoli di essere derisi e maltrattati per loro idee politiche e culturali. L’intellettuale della Magna Grecia, secondo questi fenomeni del pensiero, vale poco, è un ignaro delle innovazioni culturali del nord Europa e disperso nell’arretratezza mediterranea. Si utilizza il disprezzo geografico per manifestare una superiorità tutta da dimostrare, una conquista da “cenacolo dei sicuri di sé” pronti ad insultare e deridere usando dell’antropologia sempliciotta da luogo comune. Per un meridionale, quale lo scrivente, non è facile dimenticare il boom industriale realizzato anche da lavoratori conterranei emigrati al nord, ai quali spesso veniva mostrato il cartello “non si affitta ai meridionali”. L’aneddotica anti meridionale è vasta e con connotati fortemente razzisti, eppure frotte di intellettuali e commentatori giurano, spergiurando, come siano “episodi di razzismo” e non “razzismo generalizzato”  quello presente nel nostro Paese. E’ il B movie dell’esaltazione della diversità italiana rispetto ad uno dei problemi più antichi della storia, è la convinzione di essere, nelle famosa media che fa il totale di Totò, un luogo del mondo dove lanciare le banane contro i giocatori di colore è solo l’eccezione a confermare la regola di un’Italia dalla coscienza pulita alla “Mastro Lindo”. Il razzismo non è paura del diverso (idea spacciata da una pubblicistica edulcorata e fintamente empatica), è una forma di bisogno d’odio da esprimere ad ogni costo, un vestito di scarsa fattura con cui abbellire esposizioni di animi uggiosi insofferenti al sole.

Poi c’è Gianni Infantino, il Franti eternamente sorridente del mondo del pallone, che non si sa come nasca e non si sa da dove venga; si sa solo che si è accomodato sulla poltrona più prestigiosa del football globale e ha portato moglie e figli a risiedere in Qatar: si sa, irresistibile è la visione delle dune del deserto. “Nel calcio – dice il Presidente della FIFA – non c’è posto per il razzismo o per qualsiasi forma di discriminazione”, sopravvalutando, ancora una volta, le reali possibilità dello sport di decidere perentoriamente su un fenomeno che in Ruanda, in soli cento giorni di un caldo luglio del 1994, ha fatto perdere la vita a un milione di persone nell’eterna faida etnico/razzista tra “Hutu” e “Tutsi”. Si dimentica come sia la cultura a determinare i sentimenti, e l’utilizzo delle parole e di alcune decisioni sono fondamentali. Non aiutano, ad esempio, provvedimenti come quello recente della FIFA di istituire un “Albo dei Procuratori” in cui uno dei requisiti per accedervi è la conoscenza di una lingua tra inglese, spagnolo e francese, ovvero le tre principali lingue responsabili del colonialismo e dello schiavismo messo in atto nel mondo occidentale. Estirpare un falso concetto di supremazia passa anche attraverso non continuare a legittimare, nella vita di tutti i giorni, il dominio in cui la suddetta supremazia ha radici.

Ma Gianni Infantino, e l’accolito europeo Aleksander Ceferin, proprio non ci arrivano, immersi come sono nella comunicazione da spot, funzionale a potergli far dire, con poca fatica e impegno, di far di tutto con bandiere “no to racism” da sventolare dietro le squadre schierate in campo e “inginocchiate” varie prima del fischio di inizio. Retorica a buon mercato e priva di iniziative culturali concrete, che forse non si mangiano ma aiutano molto sul raccontare sul saper stare a tavola. “Riconoscere che il razzismo nel calcio esiste – ha detto il professore di scienze politiche Christos Kassimires, autore di una interessante pubblicazione sulla discriminazione nel calcio – non è certamente sufficiente né per supportare i calciatori, né per dotarli di strumenti necessari che consentirebbero loro di fare la differenza”, e ora vai a spiegare un concetto così elementare e concreto ai Stanlio e Ollio del calcio  mondiale ed europeo. Si cerchi di illuminarli sul dato anagrafico e demografico di uomini, perlopiù giovani, che si seguono e si imitano in giro per tutti gli stadi europei. Il calcio non esiste nel “vuoto”, è un riflesso di un contesto dove a fallire è stata proprio la cultura, incapace di creare un sentimento di ragione sul razzismo. Le banane lanciate sui giocatori di colore è folklore rimbecillito causato da questa incapacità, e le tante “foto opportunity” dei maggiorenti del calcio in convegno, sorridenti e complici, non sono che repliche stantie de “Il Consesso degli Idioti”, celebre dipinto di Joshua Reynolds.

Non il calcio, ma il cinema e la letteratura non devono perdere fiducia, non devono stancarsi e non devono smettere di lottare ogni giorno di produrre idee, veicoli di sentimenti necessari per interrogarsi e provare a capire e capirsi. “Mi occorrono numeri che ancora non esistono”, dice Kevin Costner/Al Harrison de “Il Diritto di Contare”, mentre guarda una lavagna piena di inestricabili numeri. “Abbiamo scelto di andare sulla Luna e di impegnarci in altre imprese non perché sono semplici, ma perché sono ardite”, è una delle tante suggestioni consegnate alla storia da John Fitzgerald Kennedy. Nel 1962, nell’America segregazionista incapace di redimersi, fu una donna di colore a rendere possibile l’invio per la prima volta di un astronauta americano tra le stelle. “Pensi che arriveremo sulla Luna?”, “Noi siamo già là, signore!”. Non è mai troppo tardi per provarci, anche dopo aver tirato una stupida banana.

Scrittore, sceneggiatore e regista. Tifosissimo granata e già coautore con il compianto Anthony Weatherill della rubrica “Loquor” su Toro News che in suo onore e ricordo continua a curare. Annovera, tra le sue numerose opere e sceneggiature, quella del film “Ora e per sempre”, in memoria del Grande Torino.

Attraverso le sue rubriche, grazie al lavoro di qualificati opinionisti, Toro News offre ai propri lettori spunti di riflessione ed approfondimenti di carattere indipendente sul Torino e non solo.

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