GRAN TORINO

Io, Nonna Miki e le partite da dimenticare

Io, Nonna Miki e le partite da dimenticare - immagine 1
Torna "Gran Torino" la rubrica a cura di Danilo Baccarani

Sin da bambino, dalla mia prima volta allo stadio (e forse anche prima), mi è sembrato fin troppo chiaro da che parte stare.

E “stare” non significava soltanto stare dalla parte del Toro, ma “stare” con il Toro.

Un’unione laica, una comunione di intenti che mi ha accompagnato in tutti questi anni, indipendentemente dai risultati (argh!), dai Presidenti (doppio argh!) e dai giocatori (doppio, triplo, quadruplo argh!).

Stare con il Toro significa anteporlo a tante cose, forse troppe, a volte anche esagerando, a volte rinunciando a molto, dicendo no ad amici, fidanzate, parenti.

Certo, ci sono stati eventi che mi hanno impedito di stare con il Toro, alcuni impegni lavorativi, cerimonie o vacanze cadute sulle prime giornate di campionato che mi hanno costretto a saltare il più classico degli appuntamenti.

Casualità o necessità a cui non mi sono potuto opporre.

È comunque facile ricordare quali sono le partite “perse” per strada, perché il loro numero è davvero risibile, come lo sono i motivi e le situazioni che si sono create e a cui ho partecipato mentre allo stadio, il Toro stava giocando.

Per introdurre il match pre-natalizio di sabato contro l’Udinese, il ricordo vola al Natale di qualche anno fa e ad una delle poche partite casalinghe a cui non ho assistito negli ultimi quarant’anni.

La frenesia degli ultimi regali, il freddo, l’atmosfera carica di attesa dovuta anche ad un frugoletto di tre anni che non vedeva l’ora di incontrare Babbo Natale.

20 dicembre 2015.

Il mio posto in Maratona è vuoto.

Ho registrato la partita e ho chiesto di non essere avvisato sull’andamento del match.

Sono ad una festa a casa di Marina Jarre, scrittrice e drammaturga, nonché nonna di mia moglie, che aveva riunito la famiglia (figli, nipoti e pronipoti) per una pre-natalizia merenda sinoira tipicamente piemontese.

Quando quasi cinque anni prima entrai in quell’appartamento al primo piano di quel palazzo signorile in zona Borgo Po, ero imbarazzato e teso.

Al solito, come accade d’estate, ero vestito in maniera inadeguata e mi sentii, da subito, tragicamente sotto esame.

Quella signora che leggeva i giornali su internet, scriveva mail ai suoi figli e usava il cellulare con irrisoria semplicità mi interrogò per tutta la durata della visita.

“Sei laureato?”.

-“Sì.”

“In cosa?”.

-“DAMS, Indirizzo cinema. Sono un appassionato.”

Fu il cinema a salvarmi da quello sguardo severo e dubbioso.

Cercai di buttare la palla in tribuna ma oramai ero preda delle sue domande, del suo tono rigoroso che avrebbe messo in crisi chiunque.

Quando le confessai di essere un tifoso del Toro, tirò un sospiro di sollievo: “Meno male.”

Ricordo perfettamente che da quella volta, dopo le partite del Toro, Marina chiamava e chiedeva lumi sull’andamento delle stesse: “Come abbiamo giocato? Abbiamo meritato?”.

Andare a trovare Marina, in quella zona di Torino che sembra estranea a quanto accade nel resto della città era una esperienza da raccontare.

La bella casa piena di libri, di foto della famiglia e della sua giovinezza, alle quali bastava dare uno sguardo per confrontare somiglianze e comprendere le parentele.

Marina, per tutti, Nonna Miki, ci accoglieva con rigore e compostezza.

Quello fu un pomeriggio particolare, con il mio sguardo spesso rivolto all’orologio, il cellulare silenziato in una tasca del giubbotto, immaginando il risultato della partita.

Mentre il pomeriggio volgeva al termine, Marina mi chiese, con fervente curiosità, che libro stessi leggendo in quel periodo.

Quando le dissi che stavo leggendo il mio primo Dostoevskij ad un’età tragicamente adulta, mi guardò e disse: “Non è mai troppo tardi per leggere Dostoevskij.”

Avrei imparato successivamente che quel “non è mai troppo tardi, in realtà era un: “Ma guarda questo che scopre i russi dopo i quarant’anni”.

Parlava sottovoce di suo pronipote Francesco, affaticata dall’età e così, dal nulla, mi rivelò il risultato del Toro che aveva appena perso in casa contro l’Udinese.

Rimasi in silenzio. Ci fu un momento di imbarazzo che cancellai non osando riferirle che avrei guardato la partita più tardi.

Quando tornai a casa, non ebbi la forza e la voglia di guardare quella partita decisa dall’eterna promessa Stipe Perica, croato di Zara, classe 1995, uno che mi è costato così tanti crediti al fantacalcio che penso tuttora di meritare un Premio alla carriera per l’Ostinazione.

La partita la vidi a spizzichi e bocconi, a doppia velocità, nei giorni successivi, per la perniciosa curiosità di capire come fossimo riusciti a perdere un match tanto semplice all’apparenza, contro un avversario modesto, allenato da Mister Colantuono.

Il Toro arrivò a quell’incontro con le scorie del derby di Coppa Italia, quello di Zaza che quando giocava con la maglia bianconera tutto poteva, scivolate sui portieri ed entrate in ritardo nei confronti degli avversari, incluse.

Quella sconfitta maturata contro i friulani, meritata nei modi e nei termini, non fu altro che una delle ennesime partite da dimenticare per un ciclo, quello di Ventura, che stava andando a concludersi in maniera piuttosto anonima nel classico campionato di mezza classifica a cui siamo fin troppo abituati.

Ci fu qualche sussulto, qualche scatto d’orgoglio, come l’1-5 rifilato proprio all’Udinese nella partita di ritorno, ma era chiaro che quel Toro e quel gruppo avevano finito il loro dovere.

Ma se Toro-Udinese di sabato prossimo è partita che ha significati molto più ampi di quanto si possa immaginare, nei miei ricordi di bambino, la sfida per eccellenza contro i bianconeri friulani è il grande classico andato in scena il 6 febbraio 1983.

0-0 finale, ennesima occasione persa per fare il salto di qualità (l’originalità da queste parti non sappiamo proprio cosa sia, eh?) per la squadra del Sergente di ferro Bersellini, capace di compiere l’impresa un mese dopo, nel derby più folle di sempre ma lontana dalle posizioni di vertice, per il solito campionato da vorrei ma non posso.

Quel giorno però, al Comunale, Toro-Udinese era solo un pretesto per riabbracciare il Mito, Paolo Pulici, trasferitosi, ironia della sorte, in bianconero, durante l’estate.

Un amore mai finito, ma le lacrime di papà (e di tanti altri come lui) furono un evento difficilmente cancellabile.

Pulici osannato, Pulici a cui venne dedicato uno striscione, Pulici capace di fermare il tempo quando al 71’ entrando in campo, oltrepassò la barricata, ricoprendo il ruolo di “avversario”.

Una sensazione strana che bloccò tutti, consapevoli che il gol dell’ex sarebbe stato il minore dei mali, quasi una sorta di accettazione dell’ineluttabile destino.

Ma siccome questa storia non è una storia come le altre, fu proprio Pulici a salvare il Toro, inconsapevolmente (e involontariamente), deviando una punizione di Surjak destinata a impensierire, o battere, Terraneo.

Toro-Udinese come crocevia di ricordi personali e collettivi.

Le chiacchiere con Nonna Miki, le lacrime di papà.

La partita che non vidi e quella che molti di noi, non avrebbero mai voluto vedere.

tutte le notizie di

Se vuoi approfondire tutte le tematiche sul mondo Torino senza perdere alcun aggiornamento, rimani collegato con Toronews per scoprire tutte le news di giornata sui granata in campionato.