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Il calcio: magnifica illusione

Loquor / Torna l'appuntamento con la rubrica di Anthony Weatherill: "L’illusione, l’attesa della sorpresa dietro l’angolo, è quella cosa che spesso ci da la forza per desiderare di andare oltre i nostri sforzi"

Anthony Weatherill

"“Il fiore dell’illusione produce

"                                                                       il frutto della realtà”.

"Paul Claudel

Nel “Siglo de oro”(secolo d’oro) spagnolo, che abbraccia grosso modo i secoli sedicesimo diciassettesimo, si pongono le basi del successo della Spagna come potenza mondiale. La nuova potenza economica e coloniale, figlia dell’unificazione delle corone di Aragona e Castiglia, è finalmente pronta a dare i natali ad alcuni personaggi destinati a diventare pilastri della cultura universale, non solo spagnola. Miguel de Cervantes scrive il “Don Chisciotte della Mancia”, da tutti considerato il primo romanzo moderno, dove l’importanza della parola “illusione” irrompe con potenza nell’esistenzialismo letterario. Curioso come nella lingua spagnola l’illusione non abbia la stessa accezione negativa contenuta nella lingua italiana, ma come sia invece legato a qualcosa di miracoloso, che potrebbe prima o poi accadere. Ecco perché Andres Iniesta, celebre componente del Barcellona che fu guidato da Pep Guardiola verso ogni vittoria e record possibili, fu soprannominato dalla stampa spagnola “l’illusionista”: con Iniesta in campo ogni cosa era possibile, ogni illusione (sogno realizzato) era davvero dietro l’angolo. Ora si provi ad immaginare un adolescente finito a tirare calci ad un pallone in quella Sassonia inglobata, dopo la Seconda Guerra Mondiale e la divisione della Germania in est e ovest, in quell’immaginario paradiso socialista prefigurato da Karl Marx e che aveva assunto la denominazione di Repubblica Democratica Tedesca. Jurgen Sparwasser era finito a tirare calci ad un pallone, perché  considerato non all’altezza di praticare i prestigiosi sport olimpici, erti dal regime satellite dell’Urss a cartolina di tornasole mondiale del successo socialista in Germania Orientale. Le medaglie olimpiche avevano per Erich Honecker, padre padrone del Partito di Unità Socialista di Germania (SED), la priorità assoluta, e aveva affidato a Manfred Ewald, condannato dopo la caduta del Muro di Berlino per aver organizzato il doping sistematico nello sport della RDT, il controllo totale di tutte le attività olimpiche. In tale contesto giocare al calcio era considerata un’attività di assoluto ripiego, anche perché c’era la consapevolezza che non si sarebbe mai potuti arrivare al livello delle più importanti potenze calcistiche del mondo. Soprattutto non si sarebbe mai potuti arrivare al livello degli odiati cugini della Germania Ovest. Mentre Jurgen cominciava, tredicenne, a realizzare che nel giocare al calcio ci sapeva proprio fare, veniva tirato su il  “Muro di Berlino”, nonostante l’allora presidente della RDT Walter Ubricht aveva seccamente risposto ad un giornalista come nessuno avesse intenzione di costruire un muro per dividere fisicamente le due germanie. Un muro che nella notte tra il 12 e il 13 agosto del 1961, dopo che il governo della RDT aveva ordinato di tagliare le connessioni con l’ovest, si era appalesato attraverso degli sbarramenti composti da filo spinato. La polizia, a dir poco in modo rude, aveva avuto l’incarico di impedire che qualcuno oltrepassasse quella barriera innalzata a simbolo di ogni possibile incubo. Tutto ciò era stato fatto senza avvertire in nessun modo la popolazione, e numerose famiglie si erano ritrovate separate di punto in bianco. Il Muro non aveva tagliato in due Berlino, ma aveva circondato la zona ovest, rendendola praticamente un isola. I tedeschi dell’est si erano ritrovati, così, a sognare quell’isola irraggiungibile circondata da ben 140 chilometri di assurdo diventato realtà. Un assurdo, nel corso dell’intera esistenza della RDT, superato, e con notevoli rischi, da circa cinquemila persone in cerca di migliori condizioni di vita e libertà. Cinquemila su poco più di sedici milioni di abitanti, che si erano dovuti adattare alla vita pianificata e senza scossoni offerta da ogni stato satellite dell’Unione Sovietica.

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L’unica illusione possibile era, come si è detto, una medaglia olimpica; strada sicura per ottenere una casa, un telefono e una “Trabant”. Tutte cose, secondo la logica, impossibili da ottenere militando in una qualsiasi squadra della “Oberliga”(la massima serie calcistica della RDT). Ma Jurgen Sparwasser era un vero figlio del cuore della Sassonia, una terra dove Johann Friedrich Bottger verso la fine del settecento credette di aver realizzato l’antico sogno degli alchimisti, ossia la trasformazione di materiale grezzo in oro. In una terra così è facile ritenere come ogni sogno sia possibile da realizzare, basta volerlo. E questo anche se si è figli di una famiglia della working class, senza telefono in casa e con poche speranze di ottenere prima o poi una “Trabant”, mitico desiderio trasversale a quattro ruote di ogni tedesco dell’est. L’occasione di sfondare idealmente il Muro, per Jurgen Sparwasser, giunse ai mondiali di calcio del 1974 disputatisi nell’allora Germania Federale. Per uno strano scherzo del destino l’urna del sorteggio creò un girone con Germania Est, Germania Ovest, Cile e Australia. I poveri australiani si ritrovarono in un girone che sembrò più una trama surreale di un racconto politico che un raggruppamento di squadre nazionali desiderosi di farsi strada nella competizione mondiale. Il Cile aveva staccato il biglietto per la Germania, grazie al rifiuto della nazionale sovietica di giocarsi lo spareggio. Le autorità sovietiche non  accettarono di far scendere la propria nazionale  in un campo, lo Stadio Nacional di Santigo del Cile, dove solo pochi mesi prima, nel corso del golpe operato dal generale Augusto Pinochet, erano stati torturati ed eliminati centinaia di cileni. Non meno facile era il clima tra le due squadre tedesche, visto che nel maggio 1974, ossia a poche settimane dal mondiale, il mitico cancelliere Willy Brandt era stato costretto alle dimissioni, a causa di uno dei suoi principali collaboratori, Gunter Guillaume, rivelatosi una spia della Stasi, il potentissimo servizio segreto della RDT.  In questo clima la sera del 22 giugno le due nazionali tedesche si affrontano e si giocano il primo posto nel girone al Volksparkstadion di Amburgo.

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E’ la prima volta che si confrontano in un incontro ufficiale. Nessuno, nella RDT, si aspetta molto da questa partita. Anzi, molti si aspettano una disfatta. Le star internazionali della Germania Ovest, guidati da Franz Beckenbauer, sanno di avere davanti a loro, calcisticamente parlando, degli sprovveduti della pedata. Per proteggere il buon nome del regime socialista il capo della Stasi, Erich Mielke, mise le mani avanti, dichiarando come “il calcio era l’arma che l’Ovest usava per corrompere ideologicamente la gioventù dell’Est”. Ma davanti alla diretta della partita trasmessa da 140 emittenti televisive nel mondo, ecco che l’illusione donchisciottesca affondò, ancora una volta, i suoi artigli nella storia. Ecco come il giovane proveniente dalla Sassonia, lasciò a tutti i suoi connazionali la domanda più orgogliosa della storia della RDT: “dove eri quando Sparwasser segnò”? Più delle immagini di quel gol memorabile, che segnò la sconfitta dei cugini dell’ovest, rimangono scolpite le parole del premio nobel Gunter Grass: “Sparwasser accalappiò il pallone con la sua testa, se lo portò sui suoi piedi, corse di fronte al tenace Vogts e, lasciandosi persino Hottges dietro, lo piantò alle spalle di Maier in rete”. Era fatta, era la rete di un’insperata vittoria. Era il riscatto su quell’isola felice di Berlino Ovest, enclave ricca e bulimica, nonché irraggiungibile. Per una volta “l’Isola che non c’è” è quell’est quasi sbeffeggiato dal muro. Al fischio finale dell’arbitro uruguaiano Ruiz, Sparwasser scambiò la sua maglietta con Paul Breitner e andò a salutare i 1780 tifosi dell’Est, giunti ad Amburgo grazie ad uno speciale permesso turistico governativo. Al rientro in patria il ragazzo della Sassonia fu proclamato eroe nazionale, anche se gli furono impediti festeggiamenti pubblici, perché la sobrietà della parte orientale del muro doveva vincere sull’atteggiamento libertino della parte occidentale. Ma l’illusione di Sparwasser aveva avuto il suo compimento, ed è uno di quei moniti che ogni tanto il calcio ci regala. L’illusione, l’attesa della sorpresa dietro l’angolo, è quella cosa che spesso ci da la forza per desiderare di andare oltre i nostri sforzi; ecco perché, probabilmente, un signore comprò per 35000 euro ad un’asta a favore delle vittime della grande alluvione tedesca del 2002, le magliette scambiate da Breitner e Sparwasser alla fine di quella partita del 1974. Quell’anonimo signore le comprò e le donò alla Casa della Storia di Bonn. Perché l’illusione ha bisogno della memoria, per continuare a credere in se stessa. E allora faccio una scommessa sul Torino che vince questo campionato, e mi godo piacevolmente la mia illusione. Lasciatemi amare il calcio, perché sono il pensiero e sono le idee a reggere le mura delle nostre esistenze. Proteggendole.

Di Anthony Weatherill

Anthony Weatherhill, originario di Manchester e nipote dello storico coach Matt Busby, si occupa da tempo di politica sportiva. E’ il vero ideatore della Tessera del Tifoso, poi arrivata in Italia sulla base di tutt’altri presupposti e intendimenti.