Riceviamo e pubblichiamo un racconto di Matteo Curreri, giornalista pubblicista laureato in Lettere e Filosofia all'Università Cattolica del Sacro Cuore che ha recentemente concluso un percorso in sceneggiatura presso un'accademia di cinema. Il suo è lungo articolo incentrato sull'intreccio tra il Grande Torino e Frank Swift, storico portiere del Manchester City e giornalista scomparso nel disastro aereo di Monaco nel 1958. Il pezzo nasce come racconto umano e sportivo, e si sviluppa a partire dalla sfida Italia-Inghilterra del 1948, fino alle tragedie di Superga e Monaco, evidenziando i punti di contatto simbolici tra le due vicende.


L'INTERVENTO
Italia-Inghilterra 1948: l’incontro di due tragedie
Buona lettura!
“Se le gioie inattese sono le più belle, quella che abbiamo provato oggi a Colombes non la scorderemo più. Ci rimarrà sempre il ricordo di quei minuti del primo tempo in cui gli azzurri, passando di slancio, di intelligenza e di forza attraverso le maglie della difesa francese, hanno realizzato tre goals che ci hanno fatto balzare in piedi con il cuore in tumulto; non scorderemo che sugli spalti migliaia e migliaia di italiani esultavano, eserberemo intatta nella nostra mente la scena finale, l’abbraccio che i nostri ragazzi si diedero al centro del campo”.
Così Luigi Cavallero scrive su Stampa Sera all’indomani de “La grande giornata di Colombes”, in cui l’Italia - ancora bicampione del mondo dal 1938, ma reduce da un’umiliante sconfitta con l’Austria per 5-1 - stende la Francia con tre gol in otto minuti. Un rigore parato da Bacigalupo – poi fatto ripetere – non intacca la festa. Da Colombes alla Gare de Lyon, tanti, tantissimi italiani rendono omaggio ai loro idoli tra applausi e richieste di autografi. “Che bella cosa il gioco del calcio… quando si vince! Fa dimenticare tutto” – afferma il ct Vittorio Pozzo. Il successo per 1-3 sulla Francia, del 4 aprile 1948, va ben oltre l’affermazione sportiva. L’Italia, al suo interno, è alle prese con la ricostruzione. A darsi una nuova veste repubblicana, dopo il ventennio fascista e una guerra suicida. E lo sport, in questo senso – in particolare calcio e ciclismo – dà un apporto non indifferente.
“L’Italia ci darà una bella partita”, afferma sul Daily Express il segretario dell’FA, Stanley Rous, presente sugli spalti di Colombes. Il riferimento è al 16 maggio, quando lo Stadio Comunale di Torino sarà teatro della sfida tra i campioni del mondo e l’Inghilterra, gli inventori del gioco, che - dopo un lungo isolamento dalle competizioni Fifa - si preparano per il Mondiale del 1950, il primo della loro storia.
In quegli anni, la Nazionale italiana è sinonimo di Torino. Di un Grande Torino: la squadra che, nel dopoguerra, esprime il miglior gioco, colleziona successi e domina il campionato italiano. Un gruppo costruito pezzo dopo pezzo dal presidente Ferruccio Novo, ora collaudato fino a rendere quasi superflua ogni alternativa per Vittorio Pozzo. Esempio, in tal senso, è l’incontro dell’11 maggio 1947: Pozzo schiera dieci undicesimi del Torino, con la sola eccezione del portiere, Lucidio Sentimenti IV della Juventus. Quello tra Italia e Inghilterra è non solo l'incontro tra due superpotenze del pallone, ma, col senno di poi, anche di due tragedie scolpite nella memoria collettiva di due nazioni, accomunate da una passione sconfinata per il calcio.
Frank Swift: showman prestato al calcio
—“L’Inghilterra è stata benedetta da alcuni straordinari portieri nel corso della mia vita. Basta pensare a Bert Williams, Ted Ditchburn, Frank Swift, Gordon Banks, Peter Shilton e David Seaman. Con buone ragioni si potrebbe scegliere uno qualsiasi di loro, ma io Devo dire che Frank Swift è stato il migliore”. – Tom Finney, compagno di Nazionale di Swift. Frank Swift, portiere del Manchester City e della Nazionale, è una delle figure più carismatiche del calcio inglese. Unisce tecnica e spettacolo. Accompagnato da una buona dose di coraggio, ama buttarsi tra le gambe degli avversari e frenare le offensive con interventi spettacolari e risolutivi. “Credeva nell’importanza di divertire il pubblico” dice di lui Matt Busby, suo compagno al City, poi tecnico di quello sfortunato Manchester United. “Fu il primo portiere-spettacolo. Ma prima di tutto era un portiere magnifico”. Swift comanda l’area con autorità. Preparatissimo, studia attentamente gli attaccanti avversari. Dopo le partite, analizza con minuzia ogni gol subito. Mai uno sfogo, nemmeno nei giorni peggiori. È un vero sportivo e, per questo, considerato un uomo perbene.
Fisicamente imponente per l’epoca – 188 cm, mani larghe 30 cm, da cui il soprannome ‘Padella’ – è tra i primi a ribaltare le azioni da difensive a offensive, rilanciando il pallone con le mani con precisione e potenza. Swift nasce a Blackpool, nel Lancashire, il giorno di Santo Stefano del 1913. Fin da piccolo è ossessionato dal football: gioca in ogni occasione con i suoi fratelli. Muove i primi passi nel Fleetwood Town e, nel frattempo, lavora in miniera. Dopo un inizio incerto, il talento di Swift emerge rapidamente, guadagnandosi l’interesse del Manchester City. Nella stagione 1933-34 arriva la grande occasione. Swift è terzo nelle gerarchie, dietro i due portieri Len Langford e James Nicholls. Il primo si infortuna poco prima di Natale, mentre il secondo incassa otto reti in una disastrosa prestazione con il Wolverhampton. Tocca allora a Frank difendere la porta del City nelle due sfide di Natale e Santo Stefano contro il Derby County: nella prima subisce quattro reti, ma il giorno dopo festeggia il suo ventesimo compleanno con un clean sheet. Da quel momento diventa imprescindibile, giocando tutte le partite delle successive quattro annate.
In quella stessa stagione d’esordio, il City arriva fino alla finale di FA Cup. Il 28 aprile 1934, i Citizens battono il Portsmouth 2-1 e si aggiudicano il trofeo. “Swifty era solo un ragazzo quando giocò con me nella finale di Coppa d’Inghilterra. L’emozione fu troppo grande per lui e alla fine svenne”, racconta Matt Busby. “Cercando di riprendersi negli spogliatoi, balbettò: “Abbiamo vinto?”.
Nel 1937 il Manchester City conquista il titolo di campione d’Inghilterra. Poco dopo arriva la guerra. Sebbene resti nel Regno Unito, viene assegnato alla Army School of Physical Training, dove lavora come allenatore atletico per i soldati destinati al fronte. Poco dopo, il 18 novembre 1939, fa il suo esordio con la nazionale inglese in un’amichevole contro il Galles. Diventa un punto fermo per gli inglesi nel periodo a cavallo tra guerra e dopoguerra. È in campo anche il 10 aprile 1948, in una sfida contro la Scozia. Swift è protagonista di una delle sue migliori prestazioni: da un suo rinvio nasce il gol della vittoria. Ma quel giorno torna a casa con due costole rotte. Rimane in campo fino alla fine e, al rientro a Manchester, crolla esausto sulla banchina della stazione dei treni. Lo portano via su un carrello portabagagli. Tra cinque settimane deve affrontare l’Italia a Torino.
L’attesa
—“Avviso agli inglesi: i granata sono in forma”, titola Stampa Sera in quarta pagina nell’edizione del 10 maggio 1948. A salire in cattedra Valentino Mazzola, autore di due reti che regalano al Toro la vittoria sull’Atalanta. La prima entra di diritto nella plurinominata cineteca. Grezar lancia in profondità per Menti, che scatta in velocità e alza un cross ad altezza media per capitan Valentino. Lui si coordina in mezza rovesciata: la palla sfila a fil di palo e si insacca. “Ma no, sciupone, dovevi riservarla per domenica prossima, peR l’occasione massima, una prodezza simile, se l’avevi in serbo!”, commenta Vittorio Pozzo - nel suo alter ego giornalistico.
Intanto la febbre per il grande appuntamento con i maestri del calcio cresce, e si riflette in una corsa sfrenata al biglietto, anche a costo di sfidare le peggiori condizioni atmosferiche. Una folla compatta rimane sotto la pioggia per ore, in attesa. Il primo ad accaparrarsi il prezioso tagliando è un signore salito apposta da Firenze, con una valigetta e una sedia pieghevole. Dorme davanti alla sede della Lega per ventiquattro ore, sotto l’acqua. All’alba, la coda è già diventata fiume. Intorno, venditori di aranciate, di nocciole e panini chiudono i migliori affari. Tutta l’Italia ha un solo desiderio: esserci, anche in quei giorni in cui il calcio non è l’unico argomento di discussione. L’11 maggio, l’Italia conosce il suo nuovo presidente della Repubblica: Luigi Einaudi. Economista piemontese, è il primo inquilino del Quirinale dopo l’entrata in vigore della Costituzione.
A Milano arriva la Nazionale inglese. Anche l’Unità, giornale comunista poco avvezzo alle cronache sportive, se ne occupa con un titolo curioso: “Le lunghe braccia del portiere Swift fermeranno i palloni degli azzurri?”. La squadra si sposta nel ritiro di Stresa, dove l’attenzione si concentra sulle condizioni fisiche di Frank Swift dopo l’infortunio alle costole: “Ora potrei parare anche una palla di cannone”, risponde.
Il primo giorno è una festa. Ad accogliere gli ospiti c’è anche Vittorio Pozzo, e non mancano le risate. “Swift è il campione dei calciatori inglesi, a giudicare dal suo ridere a coccodè”, scrive Luigi Cavallero, cogliendo lo spirito giocoso del gruppo. Il ct Winterbottom, nomina Swift capitano dei ‘Tre Leoni’. Una scelta molto criticata in patria. In tanti temono che un portiere non possa incitare i compagni come un giocatore di movimento. Approfittando della presenza dei giornalisti, i giocatori inglesi chiedono di Gabetto e di Maroso, sollevandosi quando apprendono che quest’ultimo non sarà della partita. E Mazzola? “Mai sentito nominare”.
Nel frattempo, la Nazionale di Vittorio Pozzo si allena a Cuneo. Prima di partire per Torino, il gruppo azzurro è invitato a Boves, piccolo centro della zona, da alcuni amici. Un momento di svago prima di calarsi nel clima partita. Peccato che, alla discesa dal pulmino, si trovino di fronte quasi tutta la popolazione del borgo, tra autorità locali, cittadini e addirittura una banda musicale. A fare da sfondo, la pioggia incessante. Ne sa qualcosa Vittorio Pozzo, bloccato in auto dalla piena di un torrente. “Lei a Torino deve andarci per forza! Ho un biglietto della partita, io, e non voglio rischiare di perdere l’incontro”, gli grida scherzosamente il comandante dei pompieri di Fossano. Quando gli abitanti di Savigliano lo riconoscono, lo acclamano: “Viva Pozzo e forza azzurri!”. Come scrive il cronista Paolo Bertoldi, l’incontro fra italiani e inglesi è talmente importante che “nemmeno un nubifragio dei più violenti può farlo dimenticare”.
La partita che Calvino non vide
—“Siamo usciti dallo stadio intontiti. Dopo tanta attesa, l’avvenimento era passato ormai e c’era in noi un senso di scoramento, di delusione, di stizza quasi per quanto era avvenuto. Avevamo sperato molto e forse per questo il nostro abbattimento era tanto grande. (...) Avevamo creduto in una lotta da pari a pari, nella quale l’estro nostro avrebbe bilanciato la ammessa superiorità degli avversari. In fondo si giocava in casa, al cospetto di una gran folla amica (...) Invece tutto è andato alla rovescia”. Luigi Cavallero, Stampa Sera
Si arriva al 16 maggio, il giorno tanto atteso. Piove quella domenica mattina. La gente arriva da ogni parte d’Italia. Scende dagli autobus, dalle auto, dai treni e si dirige a piedi verso lo stadio Comunale di Torino. All’improvviso, tra le nuvole, fa capolino il sole. Il termometro sale fino a 32 gradi. Nell’aria i canti, le risa, colorano la tensione d’allegria. Swift ricorderà il momento in cui Stanley Matthews gli si avvicina negli spogliatoi prima della partita e gli dice: “Darò tutto quello che ho per te, Frank. Uno vale l’altro, e noi tutti faremo lo stesso!”. Le squadre fanno il loro ingresso sul terreno da gioco.
Italia e Inghilterra giocano a specchio: entrambe utilizzano il ‘sistema’ o ‘WM’. L’atteggiamento degli inglesi è inaspettato, quasi inedito: la squadra di Winterbottom rinuncia al classico vigore fisico, per dominare sul piano tecnico. E dopo appena quattro minuti gli azzurri devono già rincorrere. Gli inglesi passano subito avanti grazie a un capolavoro di Mortensen: un tiro da posizione defilata che farà scuola e verrà ricordato come “gol alla Mortensen”. L’Italia reagisce subito: Menti, Mazzola e Loik imbastiscono un’azione pericolosa, ma la conclusione dell’ultimo termina sul fondo. Intorno al quarto d’ora, Menti e Gabetto si vedono annullare due reti, tra i fischi rivolti all’arbitro spagnolo Escartin. Ma sono gli inglesi a controllare il gioco e a trovare spazi. Mortensen è un vero incubo per i difensori azzurri. Dopo il gol, confeziona anche l’assist per il raddoppio: parte addirittura prima della metà campo, supera Grezar, raggiunge il fondo e serve Lawton, smarcato e pronto a colpire. È 2-0 al 23’.
L’Italia, stonata dal doppio vantaggio ospite, cerca di rientrare in partita. Carapellese ci prova due volte, ma trova davanti a sé uno Swift in giornata di grazia. Dopo l’intervallo gli azzurri rientrano con una nuova verve, e con un nuovo pallone. Una decisione non casuale: Parola e Mazzola, nella vita privata, si dedicano ciascuno una propria fabbricazione di palloni. Per questo, si è deciso di utilizzare un pallone di una marca terza. La ripresa si gioca però con uno della marca di Mazzola. Malgrado tutto, gli azzurri rientrano determinati. Dopo due minuti, Mazzola si trova a tu per tu con Swift, che in uscita gli chiude magistralmente lo specchio. Al 58’ Gabetto colpisce di testa: traversa, palla che rimbalza a terra. Per l’arbitro non ha varcato la linea. È il colpo di grazia: gli azzurri abbandonano la contesa. Al 70’ Mannion si sgancia sulla destra e serve Finney, solo sul lato opposto: è tris. Due minuti dopo, ancora Finney per la quaterna, sfruttando l’ennesima discesa di Mortensen.
Gli 85.000 dello Stadio Comunale restano in religioso silenzio. E dopo il quarto gol c’è chi inizia a dirigersi verso casa, chi a Torino, altri verso città più lontane. Fuori dallo stadio la delusione è palpabile: “Almeno una rete… una sola…”, mormora un uomo di mezz’età. “Siamo venuti da lontano per assistere a un disastro simile…”, “Mai presa tanta pioggia e gettati tanti soldi e sofferti tanti reumatismi…”. Tra le voci che commentano amaramente, c’è anche quella giovane di Italo Calvino. Ha 24 anni e mezzo, e da poco ha lasciato l’impiego presso l’Einaudi. E’ stato recentemente pubblicato il suo primo romanzo, Il sentiero dei nidi di ragno.
Calvino firma per l’Unità un pezzo intitolato: “Una partita che non ho visto”. “Non potevo dormire, sabato notte, e dalla finestra aperta mi arrivavano i rumori della città, della gente senza letto accampata sui marciapiedi e i tavolini del caffè, e gli strilloni che annunciavano l’uscita dei giornali, uno dopo l’altro. Domenica non si sapeva cosa guardare: il cielo che un po’ prometteva burrasca e un po’ sereno, le macchine forestiere che un po’ alzavano le cabriolet un po’ l’abbassavano scoprendo vestiti vivaci e bionde chiome all’aria, gli autopullman vuoti che giravano come fossero in vacanza. Poi il sole ha vinto. L’Italia, no, purtroppo. Su tutte le vie correva ansiosa la voce di Carosio, anche quelli che volevano far gli indifferenti finivano per fermarsi ai crocchi ad ogni bar. “È in rete! È entrata! L’Italia ha segnato!”. Macché: quell’arbitro! Lo maledicemmo anche noi di fuori”.
I giocatori dell’Italia sono avviliti. Hanno dato tutto, ma si sono scontrati con un’inferiorità manifesta. Li vediamo così, immobili, seduti sulle panchine dello spogliatoio. Bacigalupo, in un angolo, piange come un bambino. Gabetto, pallido, rimane in silenzio, a rammaricarsi per il gol annullato. Loik si sfila lentamente la maglia azzurra. Non vola una mosca. Mazzola rompe il silenzio: “Avremmo potuto giocare meglio, ma ‘i bianchi’ sono davvero forti”.
Se spostiamo lo sguardo tra le pareti dello spogliatoio inglese, l’atmosfera è completamente diversa. “Gara interessante, ma ci aspettavamo di più dagli italiani – commenta Frank Swift – Comunque sono stati molto corretti, questo bisogna dirlo”. Il giorno dopo, la stampa inglese celebra il portiere: “Frank Swift ha avuto un ruolo determinante nel demoralizzare gli attaccanti italiani nei pressi della porta. Devono aver pensato che un uomo del genere fosse impossibile da battere, perché alcune delle sue parate sono state spettacolari e brillanti”. “Frank Swift Was Italy’s Hoodoo. Frank Swift era la maledizione dell’Italia”. Per il Daily Express, Mazzola e Parola sono giocatori di classe internazionale, ma “Swift si erge come un colosso e la folla che era venuta per ammirare il grande portiere italiano (Bacigalupo) applaudì invece quello inglese, il quale ha fatto dei salvataggi miracolosi”.
1949: ritiri
—La stagione 1948-1949 segna la fine della carriera di Frank Swift. All’età di 35 anni, dopo 338 presenze con il Manchester City, il grande portiere decide di dire addio al calcio. I segnali ci sono. Swift sente avvicinarsi il momento in cui avrebbe perso il posto da titolare. Eppure, verso la fine della stagione, il rendimento torna a risalire con sei clean sheet. A Pasqua, Swift invia una lettera al consiglio del club annunciando il suo ritiro. Anche in Italia la notizia non passa inosservata: il 21 aprile 1949, La Stampa gli dedica un trafiletto, annunciando che avrebbe giocato la sua ultima partita il 7 maggio contro l’Huddersfield.
In Inghilterra è tempo di omaggi e celebrazioni. John Macadam, sul Daily Express, scrive: “Il calcio non sarà più lo stesso senza il grande, impacciato, sorridente, stravagante Frank Swift. È impensabile che l’uomo che è stato al centro della scena per tanti anni diventi qualcosa di diverso dal Numero 1”. Il 27 aprile 1949 gioca l’ultima partita in casa, a Maine Road, contro l’Arsenal. Finisce 0-3, ma l’attenzione è tutta per lui. Centinaia di tifosi rimangono nello stadio molto prima e molto dopo il match, scandendo: “Vogliamo Swift”. Viene sollevato sulle spalle, portato in giro per il campo. Due giorni dopo la partita con l’Arsenal, centinaia di tifosi si presentano anche alla festa d’addio.
Matt Busby cerca di convincere Swift a firmare per lo United e giocare ancora qualche anno, ma il City, saggiamente, decide di trattenere il suo cartellino. Il ritiro di Swift e quello di Francisco Ferreira, che avviene solo qualche giorno dopo. È l’addio al calcio del capitano portoghese a condurre il Torino a volare verso Lisbona. Qualche mese prima, il 27 febbraio 1949, a Genova, si gioca un’amichevole tra Italia e Portogallo. A quasi un anno dal poker inglese, il volto della Nazionale è cambiato: Vittorio Pozzo è uscito di scena, ma resta ben saldo il legame azzurro con il Grande Torino. Contro i lusitani, sette undicesimi della formazione italiana provengono dal club granata.
Questa volta sono gli azzurri a segnare quattro reti, una delle quali porta la firma di Mazzola. Al termine della partita, durante il banchetto ufficiale, capitan Valentino fa conoscenza del suo omologo portoghese, Francisco Ferreira. È lì che Ferreira gli confida l’intenzione di ritirarsi a fine stagione e di voler organizzare una partita d’addio: il suo Benfica e il Torino, con incasso garantito per sé. Francisco Ferreira insiste col suo club per avere i granata e riesce a contattare Mazzola in occasione della gara Spagna-Italia giocata a Madrid, il 27 marzo. Il presidente granata, Ferruccio Novo, dà l’ok. Viene raggiunto l’accordo per il 3 maggio 1949.
Superga, 4 maggio 1949
—Il 30 aprile 1949, il Torino pareggia 0-0 nello scontro diretto con l’Inter. Un risultato che, di fatto, consegna ai granata il quinto scudetto consecutivo. Così, la trasferta di Lisbona si presenta come un viaggio premio. Il 1° maggio, i granata si imbarcano a Milano, con uno scalo tecnico a Barcellona, per poi atterrare in Portogallo. Ad accoglierli, solo sulla pista, lo stesso Francisco Ferreira, che si lascia andare a un abbraccio affettuoso con Mazzola. Il primo giorno è dedicato al riposo e a qualche visita turistica. Poi, il 3 maggio, scendono in campo davanti a 40.000 spettatori, tra cui Umberto II, l’ex re d’Italia, in esilio a Lisbona. È una serata spettacolare, chiusa sul 4-3 per il Benfica. Segue una lunga cena. I saluti. Gli abbracci. Il mattino dopo, i granata si imbarcano alla volta di Torino. A bordo dello stesso aereo: giocatori, giornalisti e dirigenti. Luigi Cavallero, inviato per La Stampa, scrive:
“Stamane i granata si sono alzati presto per prepararsi al ritorno. Tra poche ore l’aereo che ha trasportato a Lisbona, dirigenti giocatori e giornalisti, spiccherà il volo per atterrare all’Aeronautica di Torino, tempo permettendo verso le 17. Che le nubi ed i venti ci siano propizi e non facciano troppo ballare…”. Nella redazione del quotidiano torinese è una giornata intensissima. Si attendono notizie da New York: si decide lo sblocco di Berlino, nel tentativo di porre fine a una delle prime grandi crisi della Guerra Fredda. La Reuters trasmette aggiornamenti sulla Palestina. Alle 17 inoltrate, il radiotelegrafista ha un balzo. Il flusso si stoppa, poi riprende: “Linea, punto, punto; linea punto, punto; linea, punto, punto. D.D.D.”. È un segnale d’urgenza.
Segue il “Flash”. Chi è all’apparecchio sorride: “Stavolta vi do una notizia buona!...”. Poi, di colpo, impallidisce. Le parole arrivano a fatica: “Intera squadra calcio Torino annientata mercoledì quando aeroplano cozzato campanile zona orientale Torino”.Tutti sperano in un errore. Forse qualcuno si è fermato a Barcellona, dove l’aereo aveva fatto scalo. Ma la Reuters conferma. Suona il telefono, parlano da Superga. I cronisti giunti sul posto sono sconvolti, raccontano ciò che vedono, a tratti piangendo. La tragedia si fa reale. In un angolo della redazione, un fattorino piange. Qualche ora prima aveva perso la casa in un’inondazione, ma le sue lacrime sono dedicate agli idoli scomparsi per sempre. La gente chiama. Vuole sapere. Cinque, sei telefoni strillano all’unisono. Dall’altro capo, sempre la stessa domanda: “È vero?”.
Quel giorno, Gian Paolo Ormezzano, storica penna del giornalismo sportivo recentemente scomparsa, nonché vate del popolo granata, ha 14 anni. È a letto, influenzato. Ricorda il momento in cui il padre entra in casa “affranto, a recare la notizia, portata in casa dalla radio. Fuori pioveva, era molto nero”. A Torino, quella notte, pochi riescono a dormire. Il passaggio dalla speranza – “ma qualcuno si sarà pure salvato…” – alla tragica desolazione del “tutti morti” è breve. Dopo poche ore, la radio trasmette la conferma, portata dalla voce più autorevole e più ferita: Vittorio Pozzo, che si è offerto per il riconoscimento. L’ex ct azzurro non vuole credere ai suoi occhi: “Se non fosse che li abbiamo visti noi, morti, aiutando nelle operazioni ufficiali di identificazione dei cadaveri, ci rifiuteremmo di credere a quanto avvenuto. Giocatori che erano l’orgoglio della nostra città e dell’Italia sportiva tutta, ragazzi, sani, pieni di salute, sprizzanti energia da ogni poro, uomini che erano le speranze nostre per le lotte cogli stranieri, ridotti in quelle condizioni!”. Pozzo, nel suo articolo per La Stampa, ricorda uno per uno, con amore e strazio:
“Menti, che venivi a confidarti con me ogni tanto, Ballarin che tanta paura avevi di perdere il posto in Nazionale dopo la partita di Zurigo, Rigamonti che t’ho fatto piangere l’anno scorso a Parigi prima della partita con la Francia, Grezar che mi corresti dietro la settimana scorsa per offrirmi una birra e per chiedermi se in realtà anch’io ti ritenessi diventato ‘vecio’”. E ancora: “Maroso, tu il vero purosangue dell’ultima generazione, Valentino Mazzola che facevi i capricci, mi davi dei grattacapi e poi mi scrivevi per chiedermi scusa, Loik che a gare finite amavi il bicchiere di vino buono, Voi tutti che mi foste compagni nelle lotte per il buon nome, e che mi rimproveraste quando Vi lasciai, pochi mesi fa, ora siete Voi a lasciare me. (…) Permettetemi che non scriva più, che Vi saluti (…)”. E chiude con una frase che spezza il silenzio: “Dicevo sovente con Voi, scherzando, che io ero un po’ come il portinaio di San Pietro, per cui cose nuove, belle o brutte, in senso assoluto più non esistono. Me l’avete procurata Voi, colla Vostra scomparsa collettiva e fulminea, la sensazione nuova: sotto forma di uno strazio che non ha un nome”. Nello stesso articolo, Pozzo omaggia Leslie Lievesley, l’allenatore inglese di quel Torino: “Uno dei migliori tecnici che avessimo in Italia”. Per la stampa britannica, il racconto della scomparsa del Grande Torino è accompagnato anche dalla morte del loro connazionale: “Ex giocatore dello United muore in incidente aereo”. “La squadra di calcio stellare d’Italia muore in incidente aereo con allenatore dello Yorkshire”. Leslie lascia una moglie e un figlio, Bill. Dopo il funerale, che commuove mezzo milione di persone nel centro di Torino, una lettera arriva sulla scrivania della redazione de La Stampa: “Io sono il bambino di Lievesley – dice la lettera – il mio caro papà è morto con tutto il Torino. Prego La Stampa ringraziare i miei compagni della V Vittorio Alfieri per avere scritto a me quelle belle letterine. Dalla lontana Inghilterra ricorderò tutti. Addio”.
Monaco di Baviera, 6 febbraio 1958
—Nonostante abbia già salutato Maine Road e il Manchester City, per Frank Swift c’è tempo per un’ultima passerella con la Nazionale. Il 13 maggio 1949, quando l’Inghilterra perde 3-1 con la Svezia, il suo sostituto Ted Ditchburn è tra i responsabili del k.o. Cinque giorni dopo, contro la Norvegia, la maglia numero uno torna a Swift. È vittoria per 1-4. Con quella partita, Frank chiude la carriera in Nazionale con 19 presenze, 14 vittorie e solo due sconfitte. Frank Swift è sugli spalti di Wembley quando il City raggiunge la finale di FA Cup nel 1955. Fa il giornalista, scrive per il News of the World. Vede la sua ex squadra cadere 3-1 contro il Newcastle e, nel suo articolo, loda gli avversari, ma lascia anche parole dolci per i Citizens.
L’anno successivo, il riscatto. Il 5 maggio 1956, il City vince la Coppa battendo il Birmingham con lo stesso punteggio: 3-1. La partita viene trasmessa in televisione, e Swift è tra i commentatori tecnici. Anche quel giorno, come nella finale del ’34, sviene un portiere del City: Bert Trautmann - diventato poi leggenda del club - che gioca con una frattura al collo e rimarrà poi ingessato per ben cinque mesi. La mattina di lunedì 3 febbraio 1958, Frank Swift è uno dei nove giornalisti che si uniscono al Manchester United per volare dall’aeroporto di Manchester, Ringway, a Belgrado, per affrontare la Stella Rossa in Coppa dei Campioni. I Red Devils sono la prima squadra inglese ad accettare l’invito della UEFA, contro il parere della Football Association, che teme una messa in secondo piano del calcio nazionale. Matt Busby, il tecnico, ha un’altra visione: lo United deve affrontare i migliori.
Nel 1957, lo United è arrivato in semifinale contro il Real Madrid. Quest’anno ha già eliminato Shamrock Rovers e Dukla Praga. Dopo la trasferta a Praga, la nebbia impedisce agli inglesi di tornare a casa il giorno successivo. L’avvenimento convince Matt Busby, in vista di Belgrado, a noleggiare un aereo: non vogliono venir meno all’impegno di campionato con il Wolverhampton. Saltare la gara significherebbe una multa o, peggio, una penalizzazione. All’andata, lo United vince 2-1 a Old Trafford. A Belgrado, all’intervallo, conduce 0-3 con due gol di Bobby Charlton e uno di Viollet. Finisce 3-3, ma basta lo stesso: lo United è in semifinale, atteso dal Milan. La mattina seguente, la squadra parte per Monaco di Baviera, per uno scalo tecnico. Swift, come altri giornalisti, prende posto in fondo all’aereo: la ritiene la parte più sicura, forte dell’esperienza di guerra.
Alle 14.31, il primo tentativo di decollo non va in porto. Alle 14.34 si fa un secondo tentativo, ma anch’esso viene annullato. Swift pretende di sapere cosa stia succedendo. Gli rispondono che si tratta di un piccolo guasto, risolvibile. Il gruppo torna nella lounge dell’aeroporto. Poi, l’improvviso rientro a bordo. Alle 15, il terzo tentativo. L’aereo guadagna velocità, ma entrambi i piloti capiscono che stanno uscendo dalla pista. Il calciatore Tommy Taylor ricorda di aver visto una recinzione perimetrale avvicinarsi velocemente. L’aereo la oltrepassa, colpisce una casa abitata da sei persone, e si spezza in due. Ventitré passeggeri perdono la vita.
Swift e il Grande Torino
—Swift sopravvive allo schianto. È in condizioni critiche ma cosciente. Tra i medici accorsi, c’è Franz Kessel, neurochirurgo. Quando la Germania aveva invaso l’Austria, Kessel aveva lasciato Vienna per trasferirsi a Manchester, dove aveva lavorato per molti anni. Riconosce subito Frank Swift e anche Matt Busby. Kessel non crede che l’ex portiere del City sia in pericolo di vita. Tuttavia, Swift muore a 44 anni mentre viene trasferito in ospedale, a causa della recisione dell’aorta, probabilmente per la cintura di sicurezza. E’ la ventunesima vittima della tragedia. Il giovane fratellastro di Frank, Alf, muratore a Blackpool, apprende la notizia da un telegiornale: “I giorni seguenti furono durissimi – dice – Tutta la famiglia era sconvolta: mia sorella, i miei due fratelli ed io. Andammo a Manchester ma, dato che la bara arrivava dall’estero, era sigillata, così non riuscimmo davvero a dirgli addio”.
Doris, la moglie, e la figlia Jean lo vengono a sapere grazie al lavoro di Jean nella redazione di una televisione britannica. Quella sera camminano fino a casa di Matt Busby, in attesa di notizie. L’allenatore riuscirà a sopravvivere e da quella tragedia costruirà il gruppo che lo porterà a vincere, dieci anni dopo, a Wembley, la prima Coppa Campioni dello United. L’intera città di Manchester è in lutto. "Oggi non esistono colori, non esiste rivalità. Oggi siamo tutti un’unica famiglia", dice un tifoso del Manchester City. Tanti messaggi di solidarietà per i caduti, compresi quelli della regina Elisabetta II e del principe Filippo.
Il funerale si tiene il 12 febbraio, nella chiesa di St. Margaret, a Manchester. Presenti oltre 300 persone. L’ex capitano di Swift, Sam Cowan, lo ricorda così: “Un uomo grande, grandi mani, grande cuore. Alto un metro e ottantacinque e con un peso di circa 90 kg, trattava un pallone da calcio con la stessa disinvoltura con cui un lanciatore veloce lancia una palla da cricket. Aveva il cuore di un leone, dentro e fuori dal campo. Era semplicemente speciale. Ci possono essere stati portieri più bravi, ma non ci sarà mai più un altro ‘Big Swifty’”.
L’ex calciatore Eric Thornton afferma: “Era indimenticabile sotto ogni aspetto, gentile fino all’estremo e sempre disposto ad aiutare chiunque nel mondo del calcio. Quando divenne giornalista conservò sempre la sua disponibilità e il suo calore verso gli altri. Uno dei suoi amici più cari ha detto: “Frank non ha mai avuto un nemico in tutta la sua vita”. In Italia, la notizia è in prima pagina su La Stampa del 7 febbraio 1958: “Cade l’aereo del Manchester United la migliore squadra inglese di calcio”. Vittorio Pozzo, ora a tutti gli effetti giornalista, scrive: “Il pensiero ricorre subito alla sciagura di Superga, una sciagura, il cui ricordo, malgrado i dieci anni o poco meno decorsi, è rimasto vivo e intatto nella memoria di tutti noi”.
La morte di Swift lo colpisce particolarmente: “Il portiere che aveva battuto gli Azzurri per quattro reti a zero, al nostro stadio, dieci anni or sono. Era un gigante e il suo modo di agire gli aveva catturato simpatie generali”. Qualche giorno dopo scrive ancora: “Avevamo incontrato l’ultima volta il lungo Frankie due stagioni or sono a Paddington, a Londra, quando non era più un giocatore, e non ancora giornalista. Si era ricordato del povero Gabetto e della sua quasi rete della partita di Torino. Ora ha seguito, nel sacrificio, la sorte del suo avversario di allora”.
Matteo Curreri
© RIPRODUZIONE RISERVATA