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Loquor / Torna la rubrica di Anthony Weatherill: "Noi siamo la comunità, e abbiamo bisogno di un destino comune"
Anthony Weatherill

“Domani sarò ciò che oggi

                                                                               ho scelto di essere”.

James Joyce

 

Una foto. Un adolescente librato nell’aria alla ricerca del pallone per un colpo di tacco perfetto. Una Milano deserta a fare da proscenio. La maglia indossata dall’adolescente è la numero ventidue di Nicolò Zaniolo, e tutto sembra un urlo giallorosso tra i percorsi in ferro dei mitologici tram meneghini. La foto è esplosione di vita, volontà inconscia(o conscia?) di voler tornare alla vita, in un momento in cui un maledetto virus sembra dire che non si ha nessun diritto alla vita. Obbligati a stare chiusi nei vani dei delle nostre abitazioni, diventati improvvisamente paesaggi lunari incomprensibili, a cercare di ricordare come forse un tempo ci sia stata vita. Abbracci, baci sulle guance, vigorose strette di mano, simboli di italianità elevata all’ennesima potenza. Sembra quasi impossibile girare per le strade italiane e non vedere più tutto questo. E allora una domanda sorge spontanea: ma dove è finita l’Italia? La rivedremo mai più? Questa magnifica nazione, che solo a nominarla in ogni parte del mondo strappa immediatamente un sorriso di buon umore. Eppure l’adolescente della foto sembra dirci che sì, l’Italia presto ritornerà; l’adolescente predica inconsapevolmente memoria, quando si giocava per strada nel nome di Gigi Riva o Gianni Rivera e qualcuno poteva pensare si sognasse la Serie A. Ma in realtà era la gioia ad essere inseguita, perché quello era il gioco dei  padri e dei  nonni, e giù fino alle generazioni più antiche un tempo sedotte da un gioco venuto dall’Inghilterra.

 

In quella foto non c’è il logo di un grande club a “brandizzare” le fantasie espresse all’interno di una scuola calcio, c’è l’audacia dell’essere liberi di provare qualsiasi cosa si possa fare con un pallone. È ribellione all’improvvisa solitudine irrotta nel quotidiano forse diventato troppo opulento, e che impone riflessione dolorosa a tratti irritante. Ma cosa eravamo diventati? Forse eccessivamente sicuri delle nostre certezze, senza mai chiedersi il significato del miracolo di un interruttore che accende una luce. Perché i nostri nonni difficilmente potevano vedere una partita sotto la luna, era solo la luce del sole a potergli regalare l’emozione di un tiro finito proprio nel “sette” di una porta. Il mondo è cambiato vorticosamente, sempre più ricco e sempre più interconnesso. E tutti felici di essere a cavallo di quei futuri irrorati da parole da fantascienza tipici dei magnifici racconti di Jules Verne. L’Italia andava avanti perdendo progressivamente memoria, non più consapevole del suo ruolo nel mondo. De Sica, Fellini, Pasolini, Antonioni cosa mai avevano raccontato? Boh… passi vicino al Foro Romano, con sullo sfondo il Colosseo, e dopo tanta bellezza a toglierti il fiato, pensi come l’Italia alla grandezza di Roma appartenga. La forza, il coraggio e la determinazioni delle “legioni” imposero una visione della vita che il mondo per secoli non ha potuto mai dimenticare, né voluto cambiare.

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C’è un “Diritto Romano” a dire come esista un limite alle nostre ambizioni e ai nostri arbitri, perché tutto si può tentare di fare, ma non tutto si può ottenere. E mentre il tacco dell’adolescente si avvicina al pallone (riuscirà a fare il colpo perfetto?), pensieri si affollano sul dopo virus, perché in fondo l’Italia essendo partita in testa a questa follia, prima arriverà al dopo. Se ci pensate questa potrebbe essere l’occasione, se colta, di provare ad indicare una nuova via per il futuro. Perché bisognerà ricostruire tenendo conto come il virus probabilmente si ripresenterà ad intervalli regolari, e perché si ripartirà dalle macerie di un mondo che sembrava eterno ed indistruttibile. Varrà la pena immaginare di ricostruirlo come quello di prima? Forse aprire un dibattito pubblico su cosa non ha funzionato sul mondo devastato dal Covid-19, potrebbe non essere proprio una così cattiva idea. L’Italia ritornata in strada, con molta probabilità non riconoscerà più quella strada, perché non è più adatta al disorientamento figlio di uno spavento senza precedenti. Allora la classe dirigente italiana avrà la chance di poter indicare una via al resto del mondo, nel ricostruire per tentare di andare in un futuro in cui riconoscersi. Ma riconoscersi in cosa? Se restiamo all’esempio del calcio, la foto ci viene in soccorso, perché ci racconta come lo sport preferito dagli italiani debba ritornare tra la gente e per la gente, e soprattutto nei luoghi frequentati dalla gente. La gente che in questi giorni da incubo sta tornando ad osservarsi non più superficialmente, gente non più isola in un mondo digitale globale, ma costretta a porsi il problema di essere parte di una comunità fatta di persone fisiche. Nel mondo prima del Covid-19 ci si sfiorava, senza neanche annusarsi e spesso riducendo l’altro alla categoria di fantasma, ora le mascherine costringono a considerare come tutti siamo parte di un destino comune. Ed è questa, a mio parere, la rivoluzione in atto a causa dell’impatto socio/economico/culturale che sta avendo uno dei virus più contagiosi di sempre.

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Un destino comune è fondamentale per non perdersi in un nichilismo sociale conflittuale, stato in cui l’Italia degli ultimi decenni era sprofondata senza averne nessuna contezza. La crisi da virus però ha fatto emergere questa condizione, tanto che qualche settimana fa Stefano Folli, sulle pagine di “Repubblica”, aveva improvvisamente rilevato uno stato di navigazione a vista da parte di chi dovrebbe guidare la vita di uno dei più importanti Paesi del mondo. “Inoltre – ha continuato l’editorialista del quotidiano di Largo Fochetti - un Paese in cui la democrazia dovrebbe contare qualcosa, sta rinunciando alle sue libertà civili senza che nessuno accompagni la richiesta di tale sacrificio con un discorso di qualche valore etico, in cui si respiri il senso di un destino comune, in cui si avverta lo spessore di una storia nazionale”. Il riappropriarsi del destino comune, deve essere il compito aureo della classe dirigente, per tornare a comprendere cosa sia realmente meglio per noi. Far ritornare al centro di tutto l’etica dovrebbe donarci un orizzonte accettabile per tutte le nostre azioni, in cui si impone, per usare le riflessioni di Soren Kierkegaard, la ricerca di un equilibrio tra “vita estetica” e “vita etica”.

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Il gesto atletico dell’adolescente della foto, racconta della ricerca di un’esperienza che determini veramente. E’ il rifiuto dello spirito “dongiovannesco” di Mozart, in cui le mille esperienze di godimento di vita lasciano solo un insensato vuoto da portare in un futuro che avrebbe bisogno di un passato corroborato di scelte responsabili. Scegliere, è questa la possibilità che il Covid-19 sta consegnando alla classe dirigente italiana. Scegliere di essere coloro che indicheranno un nuovo Rinascimento, sperando ricordino di appartenere alla storia di un Paese cuore del mondo di tutta la cultura occidentale. E’ il momento che Gabriele Gravina dica agl’appassionati del gioco più bello e seguito al mondo, quale futuro intende prefigurare al nostro amato gioco. Il Covid-19 non ci abbandonerà, e quindi si deve decidere come proseguirà la vita, e deve essere chiaro a tutti come vivere non possa essere sinonimo di sopravvivere. In nessun caso. Cultura, turismo e calcio valgono più del 20% del Pil italiano, e sono l’essenza di un popolo che se non sceglie di tornare ad occuparsi di queste attività al più presto, rischia di smarrire la sua identità per sempre. Scegliere l’etica del proprio dovere, e per una volta non si prenda ad esempio solo il personale sanitario.

 

Penso ai lavoratori dei supermercati, sovente ai nostri occhi anonimi e inconsciamente giudicati senza nessuna qualità. Essi sono i miei personali eroi dei giorni del virus maledetto, eroi che si alzano ogni mattina e si presentano al loro posto di lavoro, per permettere a tutti noi di comprare del cibo ora quanto mai necessario. Questi lavoratori potrebbero avere il diritto alla paura, esattamente come tutti noi reclusi in casa, e invece hanno scelto di esserci. Con gentilezza e infinita disponibilità, con la consapevolezza di essere parte di una comunità fisica di persone. Passeranno gli anni, ma io non mi dimenticherò di loro e del loro sacrificio. Quando la novantenne Suzanne Hoylaerts e don Giuseppe Berardelli, affetti da Covid-19, hanno rinunciato al respiratore artificiale per permettere il loro utilizzo sulle persone più giovani, hanno indicato la via dell’abbandono dell’isola in cui tutti ci eravamo rinchiusi. “Ho vissuto abbastanza, ho avuto una bella vita”, ha sussurrato Suzanne Hoylaerts con un filo di voce ai suoi medici curanti, mentre se ne stava andando via per sempre. La bellezza… la foto da cui siamo partiti ne è dimostrazione plastica, ed è inoltre una preghiera perché chi ci guida aiuti al più presto a recuperarla. Noi siamo la giustificazione perché don Giuseppe Berardelli e Suzanne Hoylartes sono vissuti. Noi siamo il motivo per cui il personale sanitario e dei supermercati ogni mattino si recano sul posto di lavoro a rischio Covid-19. Noi siamo la comunità, e abbiamo bisogno di un destino comune. Chi decide colga l’occasione storica di indicarci una nuova via. Con coraggio.

(ha collaborato Carmelo Pennisi)

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