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Miha non è il mio Toro

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Sotto le Granate / Torna la rubrica di Maria Grazia Nemour: "Le critiche mi piacciono solo se sono costruttive, ma che Miha non mi potesse rappresentare, l’ho sempre saputo".
Maria Grazia Nemour

Giuro che ci ho provato a farmelo piacere.

L’amore per il Toro è così profondo che all’arrivo di Miha ho pensato: ha dei lati positivi, porterà quelli in squadra. Ma l’unico lato positivo che – dopo mesi – gli riconosco, è essere stato un calciatore originale molti anni or sono, aver giocato in campo con la rabbia che lo ha sempre dominato nelle azioni. E quella, si porta dietro in ogni posto -e sono tanti, tanti, i posti – che va. La rabbia che lo spinge avanti e non lo fa arretrare in campo. Peccato sia sterile, una rabbia che perde i palloni e fa sragionare fino a far perdere l’equilibrio alla squadra. E tutti giù per terra.

Le critiche mi piacciono solo se sono costruttive, ma che Miha non mi potesse rappresentare, l’ho sempre saputo.

Miha è lo striscione del 2000 esposto dalla tifoseria della Lazio: Onore alla tigre.

Io, sono la risposta del Toro: Onore a gatto Silvestro.

Ci unisce un po’ di retorica forse, con la differenza che io, al Toro degli indiani contro gli usurpatori, al Toro degli operai contro i padroni, ci credo davvero. Ed è abbastanza ridicolo nel 2017, certo, ma mio padre, che lavorava nella catena di montaggio della Fiat e allo stadio ci faceva entrare anche la lotta sindacale, mi ha insegnato così.

Riconosco a Miha una certa coerenza, ecco. Uno che osanna pubblicamente la tigre Arkan – capo della tifoseria combattente della Stella Rossa, condannato con Milosevic per crimini contro l’umanità, per genocidio nell’Olocausto consumato negli anni ’90 nella ex-Jugoslavia – avrebbe potuto sputare enormità ben peggiori di “Non conosco Anna Frank”. E che sarà mai – dicono in tanti – gli è uscita una banalità! Peccato che il male sia proprio così, banale, direbbe Hannah Arendt.

È stata davvero dettata da ignoranza la risposta? Lo sa solo Sinisa Mihajlovic questo. E io gli auguro che sia così, che non sia cinismo da quattro soldi il suo. Perché quando guadagni qualcosa di più di quattro soldi e ti siedi davanti a un microfono per parlare a milioni di persone, è chiaro che ti prendi delle responsabilità. Gli auguro che davvero conosca così poco l’Italia, nonostante ci abbia passato una vita. La vita gli ha imposto di scappare con la famiglia da una zona di guerra, e visto il suo sbandierato antirazzismo, dovrebbe sentirsi umiliato per la sua ignoranza. Quantomeno sentirsi in dovere di infilare in tasca uno dei tanti Diari che hanno distribuito mercoledì in campo, e leggerselo nella notte.

Quello che non posso accettare è che quella banalità l’abbia pronunciata con lo stemma del Toro addosso. Non ha la statura per rappresentare il Toro da nessun punto di vista. Non il mio Toro. Quello di qualcun altro, magari.

Rimprovero a Cairo di avercelo portato in casa pensando che l’importante è vincere. Nel “profondo granata” Cairo non si è mai immerso. Forse è diventato una perversione da nostalgici, il profondo granata. E allora abbiamo perso. Sì, se Cairo e Petrachi non aspettano la fine della disfatta contro la Fiorentina per abbandonare il campo, abbiamo davvero perso.

Mi sono laureata in fantascienze politiche non so più bene quando. In ufficio scrivo avvincenti relazioni a bilanci in dissesto e gozzoviglio nell’associazione “Brigate alimentari”. Collaboro con Shakespeare e ho pubblicato un paio di romanzi. I miei protagonisti sono sempre del Toro, così, tanto per complicargli un po’ la vita.

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