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Che cos’è il quarto d’ora granata

Nel segno del Toro / Torna la rubrica firmata da Stefano Budicin: "Nell'immaginario collettivo, il quarto d'ora granata è un momento in cui ciò che sembrava impossibile si realizza"

Stefano Budicin

Nell'immaginario collettivo, il quarto d'ora granata è un momento in cui ciò che sembrava impossibile si realizza, in cui un ostacolo che pareva insormontabile viene aggirato e scalzato e superato a colpi di tenacia e perseveranza. È il ruggito del leone che avverte le altre specie della sua presenza indomita e orgogliosa, mite ma capace al tempo stesso di dominare la savana con il solo fruscio della sua maestosa criniera. Evocato dal suono inconfondibile di una cornetta, il quarto d’ora granata era la discesa in campo di una schiera di divinità

Capo stazione suona ancora la tromba/Nel rombo tonante di migliaia di piedi/Capo stazione suona ancora la tromba/Che risuona in questo giorno di maggio.

Il pubblico dello Stadio Filadelfia lo sapeva, lo bramava, lo attendeva. Ogni volta che il Grande Torino giocava una partita in casa i tifosi erano febbricitanti all'idea di ciò cui avrebbero avuto la ventura di assistere superato un certo minutaggio. Poteva essere a metà del primo tempo così come a pochi minuti dalla fine del secondo. Poteva essere a un passo dall'intervallo così come subito dopo il calcio d'inizio. Al pubblico non importava e il team degli Invincibili questo lo sapeva molto bene. I giocatori si divertivano pure, a far attendere gli astanti, sguardi incollati al campo da gioco e pupille dilatate, mani tremanti e cuori in procinto di palpitare come impazziti.

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Era un vero e proprio rituale. In seguito a una giocata normale se non a volte sottotono, bastava che lo squillo di tromba si spargesse come una tempesta di sabbia per lo stadio, ed ecco che la squadra rifioriva, si metteva in testa che era ora di vincere e in fretta, e una molla scattava all'interno della psiche di ciascuno dei suoi undici giocatori. L'evento assumeva le fattezze di un miracolo in carne e ossa, screziato in undici figure in movimento, schegge luminose affiatatissime e impossibili da fermare.

Oreste Bolmida, professione ferroviere, presenziava sulla tribuna in legno con in mano una cornetta delle Ferrovie dello Stato. Quando la squadra dava segno di non stare giocando al meglio delle sue potenzialità, ecco che il capostazione di Porta Nuova impugnava la cornetta e, preso da quella forma di delirium tremens che prelude in genere a una scoperta sensazionale, soffiava nell'imboccatura con una forza tale da farsi sentire da tutto lo stadio. Allora Valentino Mazzola si rimboccava le maniche, dando segno alla squadra che era ora di segnare e aumentare il ritmo di gioco. E nasceva la magia, diluita in quindici-venti minuti di performance state-of-the-art. I granata mettevano in campo tutto il talento e il geniale virtuosismo atletico di cui erano capaci, mentre le vibrazioni prodotte dallo squillo della cornetta li guidavano alla guerra, supportati dal boato dei tifosi.

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Non si conosce l'esatto momento in cui il rituale della cornetta e delle maniche rivoltate di Mazzola divenne parte integrante del gameplan degli Invincibili. Fonti vociferano che nel 1948 la tradizione fosse già in vigore da vent'anni. Certo è che durante la primavera 1946 il numero di partite dominate dal Grande Torino sfuggiva alla conta. Lo squillo di Oreste Bolmida era atteso con trepidazione, quasi quanto il fischio d'inizio di una partita, perché capace di ispirare i giocatori come nessun discorso motivazionale riuscisse a fare.  Memorabile il risultato contro la Roma allo Stadio Nazionale, il 28 aprile 1946, dove gli Invincibili macinarono sette gol sotto la spinta propulsiva dell'immancabile cornetta.

Il trillo di Oreste Bolmida si rivelerà provvidenziale anche in occasione di partite più tormentate (anche se vi sono dibattiti in corso in merito alla sua effettiva presenza). Ad esempio durante il match disputato sempre contro la Roma il 5 ottobre del 1947. Cominciata con un allarmante 1 a 0 per la squadra avversaria, era chiaro che tutti si aspettassero il trillo divino della cornetta per restituire ossigeno al cuore granata infiacchito da una simile deludente partenza. Così fu, e nel secondo tempo il Grande Torino mise a segno tre gol in quattro minuti, per poi segnarne altri quattro e concludere la partita con un impressionante 7 a 1.

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E come tacere della debacle patita dall'Alessandria il 2 maggio 1948? Sotto di quattro reti nei primi 42 minuti di gioco, i grigi si trovarono di fronte una squadra determinata a tenere il risultato sotto controllo, senza più infierire. L'idea non piacque però al pubblico e quando il suono della cornetta si propagò dalla tribuna al campo gli Invincibili misero il turbo, e in tredici minuti buoni fecero sei gol. La partita si conclude con un epocale 10 a 0.

Da semplice rituale a irrinunciabile elemento di coesione, il suono della cornetta continuò ad accompagnare le giocate del Grande Torino per molti anni. Non mancò di tuonare nemmeno il 6 maggio 1949, quando il corteo funebre si fece largo attraverso la folla, quasi avesse sentito il dovere di spronare la squadra degli Invincibili ad affrontare la morte con la stessa dignitosa maestria che l’aveva resa immensa agli occhi del mondo.

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Gli Invincibili, giocando il quarto d'ora granata, sono stati dei pedagoghi straordinari. Grazie a loro (e all’idea semplice ma grandiosa di Bolmida) gli spettatori hanno saputo trarre un insegnamento fondamentale, che mi limiterò a definire riprendendo una citazione tratta dal film Il Grande Torino:

Quel famoso quarto d'ora non esiste soltanto sui campi di calcio. Vede, esiste anche nella vita, ed è quando ti devi rimboccare le maniche. Quando (proprio come faceva lui, il capitano), capisci che tutto quello che fai deve andare nella direzione giusta.

L'astigiano Beppe Giampà ha dedicato alla squadra del Grande Torino e al suo trombettiere di fiducia un singolo intitolato Furia Granata. I versi che ho inserito all'inizio dell'articolo sono tratti dal testo della canzone. Invito tutti i lettori all'ascolto di questo piccolo capolavoro.