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Il Toro di Tolstoj

Sotto le granate / Torna l’appuntamento con la rubrica di Maria Grazia Nemour: “Tutte le famiglie felici si somigliano; ogni famiglia infelice è invece disgraziata a modo suo”

Maria Grazia Nemour

"Tutte le famiglie felici si somigliano; ogni famiglia infelice è invece disgraziata a modo suo”.

Così Tolstoj iniziava a raccontare ”Anna Karenina”, capolavoro del realismo degli ultimi due secoli. Ci pensavo lunedì sera al bar, seduta davanti allo schermo riempito di Toro-Lecce. Pensavo che a essere felici, quando si vince, ci somigliamo un po’ tutti. La gioia è omologante, basta a se stessa. Ma quando si perde no…ognuno è infelice in un modo disgraziato tutto suo. Soprattutto se tifi Toro.

C’è chi – nonostante si stesse transitando su un filotto vincente o quantomeno rassicurante – è arrivato al cospetto del Lecce preparato al peggio. Un modo per limitare la sofferenza dopo tante delusioni, dice.  Anzi, a un certo punto inizia a tifare per il Lecce, applaude al secondo gol, si alza e se ne torna a casa col suo temporale in testa.

C’è chi “la colpa è dell’allenatore”, Mazzarri non ha cambiato formazione ma la squadra da affrontare non era più l’Atalanta, c’era davanti un Lecce con mille leccesi al seguito che hanno iniziato a incitare la squadra quando sono saliti sul pullman a Lecce, e hanno chiuso la bocca solo quando sono tornati lì, a Lecce. Un Lecce neofita della serie A che non ha cantato meno dei suoi tifosi.

C’è chi “se col Lecce giochiamo il 3-4-3, con l’Inter o la Roma prenderemo un antidepressivo prima di veder scendere in campo un 3-7”.

C’è chi prima della partita mangia sempre uno yogurt acido: “sono tutti dei venduti”, chissà le scommesse che ci sono state.

C’è chi al primo gol del Lecce ha già decretato – alzandosi rumorosamente dalla sedia – che usciremo subito dalla Coppa Italia e non finiremo altro che a un decimo posto.

C’è chi aveva passato la settimana invitando ripetutamente gli astanti a salutare la Capolista, e ora viene ritenuto il principale artefice del danno in campo, qualcuno vorrebbe sospendergli il diritto al tifo.

C’è chi ha una fiducia incrollabile nella vita, soprattutto in quel pezzetto di vita che è il Toro, e non abbassa la testa neanche di un filo davanti al doppio rimpallo finito sui piedi del Lecce, davanti alla penetrabilità del muro Djidji-Bonifazi, alla mollezza dell’impostazione Baselli-Meitè, all’inconsapevolezza di Berenguer. C’è chi crede nelle persone, anche quando non brillano, addirittura quando spengono la luce all’unisono.

C’è chi crede nel progetto di ampio respiro, fiducioso che averlo confermato renda i giocatori coesi, sicuri della posizione del compagno senza neanche doverlo vedere. C’è chi vive l’infelicità di assistere a una partita dove vengono consolidati solo i limiti del continuativo assetto.

C’è chi mastica amarezza come fosse insalata, così, senza farne un dramma, alla fine voleva prendersi solo una piccola soddisfazione, fare il pieno alle prime tre partite giusto perché capita di rado, giusto perché i gobbi erano inciampati, giusto perché alla fine Verdi era arrivato.

C’è chi davanti all’infelicità rimane senza parole, perché il contributo del tifoso è l’energia, se diventa negativa meglio non esportarla in campo. Meglio tornare a casa, pensando che ci voleva davvero poco per essere felici. Banalmente felici.

Mi sono laureata in fantascienze politiche non so più bene quando. In ufficio scrivo avvincenti relazioni a bilanci in dissesto e gozzoviglio nell’associazione “Brigate alimentari”. Collaboro con Shakespeare e ho pubblicato un paio di romanzi. I miei protagonisti sono sempre del Toro, così, tanto per complicargli un po’ la vita.