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Le Loro storie, Andrea Mantovani: “Non sono riuscito a essere la bandiera del mio Toro”

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Esclusiva / Il difensore cresciuto nel vivaio granata spiega cosa vuol dire giurare amore eterno per una maglia. Non è riuscito a farlo per due volte.
Marco Parella

Un nuovo modo di raccontare il calcio: quello dei protagonisti. Calciatori, allenatori, dirigenti. Sempre sotto la luce dei riflettori, ma mai veramente compresi o comprensibili. Noi li vogliamo avvicinare ai tifosi e ribaltare il meccanismo delle interviste. Non saremo noi a chiedere, saranno loro a raccontarci un aspetto del mondo in cui vivono. Un tema libero, potremmo dire. Sono i protagonisti stessi della nostra passione a condividere con noi “Le Loro storie”. Senza filtri, senza meta.

A un passo dal diventare un eroe della storia granata, un rimpianto doppio anche dopo tanti anni e un concetto, quello di fedeltà, per cui si sentiva pronto, ma da cui i bivi della vita lo hanno allontanato più volte. In un universo parallelo Andrea Mantovani sarebbe forse ancora oggi il capitano (o vice di Balzaretti?) del Toro, un Toro con le casse piene che si gode i frutti di una generazione cresciuta nel proprio vivaio. Così non è, ma l'ex granata ed ex clivense è in una posizione unica e privilegiata per raccontarci cosa vuol dire essere "bandiera" di una squadra. Una sorta di vorrei, ma non ho voluto.

Come si fa a parlare ancora di bandiere in un calcio in cui i soldi la fanno da padrone e la mancanza di valori di questo ambiente e delle persone che ci lavorano ha portato la Nazionale a non qualificarsi a un Mondiale? Quando scegli la via più corta per arricchirti, magari sul momento ti va bene, ma alla lunga non paga. Serve ritrovare una morale, una coscienza da parte dei dirigenti calcistici, perché mancano le basi, a partire dai vivai. Bisogna puntare sul recupero di valori che vadano al di là del rettangolo di gioco, perché quello che sei nella vita, sei nel calcio. Una bandiera è la massima espressione di fedeltà e dedizione, ma sono qualità che solo se hai nella vita, le puoi ritrovare a livello professionale.

Io ho dato i primi calci a un pallone al Filadelfia a cinque anni. Avevo una maglia granata addosso. Abitavo a dieci minuti dal Delle Alpi, ci andavo a piedi a fare il raccattapalle, poi in quello stadio ho esordito in Serie A e ci ho vinto un campionato di B tra mille difficoltà. Ho fatto tutta la trafila delle giovanili, un percorso sportivo e di vita che mi ha permesso di raccogliere quelle sensazioni che la domenica ti spingono a mettere qualcosa in più in campo. Per me il granata era una seconda pelle e lo sarà sempre. Il fallimento è uno spartiacque nella mia storia, come prima di Cristo e dopo Cristo.

Quella (2004/’05, ndr) doveva essere la stagione della rinascita dopo annate difficili. Abbiamo ricucito subito lo strappo coi tifosi, vincendo tanto e riuscendo a venire fuori con forza da un momento di difficoltà fisiologico, visto che era un gruppo molto giovane. Si poteva davvero programmare il futuro avendo già in casa tanti ragazzi che poi hanno fatto delle signore carriere, ma che soprattutto arrivavano dalle giovanili: io, Quagliarella, Marchetti…. Io e Balzaretti eravamo i fari per la gente. Mi ricordo gli articoli su “capitan futuro”. Quello era il mio sogno: ritrovarmi protagonista in A con la maglia del Toro. Avevo solo vent’anni, ero nel giro della Nazionale Under21, mi seguivano grandi club come Milan, Inter e Juve. Però io mi vedevo solo con quella maglia, io pensavo già a tutta una carriera al Toro.

Andar via mi fece molto male. Non c’era uno straccio di progetto, non c’era una società. Vedevo tutti allontanarsi e trovarsi altre squadre e ho capito che forse doveva iniziare un altro capitolo della mia vita calcistica, ma quanto è durata quell’amarezza… L’ho avuta dentro per tanti, tanti anni e non mi davo una spiegazione perché non c’era in ballo soltanto un lavoro, ma era stato colpito il lato affettivo. Andai al Chievo. In sei stagioni città e società mi hanno fatto crescere e imporre nel panorama della Serie A. Verona è diventata la mia seconda casa, ci vivo ancora oggi, lì ho incontrato mia moglie e sono nati i miei due bambini. Al Chievo ho ritrovato tanti miei ex compagni del Torino, da Pellissier a Tiribocchi e Semioli. Era diverso, però. Potevi lavorare con tranquillità, era una società che allora muoveva i primi passi in A e il contesto era totalmente differente. A Torino a ogni allenamento c’erano 100-200 tifosi a guardarti, con i vecchietti che inanellavano racconti incredibili sulla storia travagliata e gloriosa del Toro. Ecco, forse a Verona ci mancava un po’ di quella pressione e quella carica che al Toro ti inculcano fin da piccolo.

Ho il rammarico di non essere diventato una bandiera per il Toro o per il Chievo, le due tappe più importanti della mia carriera. Le cose non sono andate come speravo, ma resta il fatto che per quelle due società ho dato tutto e quello che mi porto dentro è unico al mondo. Essere una bandiera, per me, vuol dire fare una scelta di vita, dare delle priorità e avere la forza, anche quando le cose non vanno bene, di non abbandonare i valori che ti hanno portato a fare determinate scelte. Ai bivi della vita, però, non sempre si sceglie il sentiero giusto. Il mio errore, ripensando al passato, è stato andarmene da Verona. Era un momento in cui ero seguito da vicino dalla Nazionale e si pensava che andando in una società importante che era in Europa come il Palermo io potessi fare il definitivo salto di qualità. Non sempre è tutto oro ciò che luccica. Furono due stagioni difficili con tanti esoneri e Ds che cambiavano. Poi sono arrivati gli infortuni.

Pellissier, mio amico, che stimo immensamente come uomo e come calciatore, ha avuto un percorso simile al mio, ma lui è diventato un simbolo per i colori gialloblu.

Nella mia testa, anche da giovane, in campo l’età non esisteva, mi sentivo leader, sentivo di dover dare sempre qualcosa in più. A 18 anni mi comportavo come oggi che ne ho 33 e questa è una caratteristica che o ce l’hai o non ce l’hai. La mia intera carriera è costruita su costanza, serietà e dedizione. Il calcio per me non sarà mai qualcosa di scontato. E parlando di fedeltà e decisioni da rispettare, una conferma può arrivare dalla mia vita privata. Con mia moglie Elisa è successo tutto molto rapidamente perché avevo capito subito che lei era la donna della mia vita. Dopo venti giorni di fidanzamento siamo andati a convivere, meno di tre mesi dopo le ho chiesto di sposarmi. Avevo le idee chiare, non aveva senso perdere tempo. Se ci guardo oggi, più innamorati che mai, sono certo di aver fatto la scelta giusta.

Sono cresciuto con gente come Chiellini, Pazzini, Aquilani nelle varie Nazionali giovanili e con loro ho vissuto emozioni forti vincendo un Europeo storico con l’Italia U19. Li ho osservati costruirsi carriere importanti; la mia non è da meno, ma non era forse quella che speravo. Il mio unico sogno era tornare in A con il Toro e che ci fosse qualcuno (a livello societario) capace di riportarlo ai fasti di un tempo.

Se guardo alla Serie A di oggi non so se ci sarà mai più una bandiera, né chi potrebbe diventarlo in futuro. Tra quelli in attività penso a Chiellini. Avendolo conosciuto in Nazionale, quando è approdato in una società importante come la Juventus, sapevo che, per come è fatto lui, ne sarebbe diventato una bandiera.

Se, chissà, nascesse un nuovo Totti o un nuovo Maldini, il mio consiglio sarebbe quello di farsi consigliare dalle persone giuste, trovare l’ambiente adatto per formarsi come uomini e unire la parte affettiva a quella professionale. A quel punto ci saranno speranze perché questo ipotetico giocatore diventi una vera bandiera. Non bisogna seguire a tutti i costi la strada dei contratti. Una clausola in meno e una dimostrazione di attaccamento alla maglia in più in campo forse farebbero bene a tutto il movimento.

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