Il Granata della Porta Accanto/ Difficile fare capire a chi non vive la realtà torinese quanto complicata essa sia e quali aspettative esprime per storia e blasone
È difficilissimo far comprendere a chi non è di Torino e, soprattutto, non è del Torino, quale situazione paradossale e frustrante si viva in città dopo quasi vent'anni di gestione del club da parte di Urbano Cairo. A livello di media generalisti (e in primis proprio quelli che fanno capo all'editore alessandrino) la contestazione al presidente è vista come un gesto folle da parte di una tifoseria anacronistica e viziata, incapace di rendersi conto di quale sia il proprio posto nel mondo moderno. Mentre, quindi, nel mondo granata cittadino e piemontese e nelle comunità di tifosi sparsi nel resto di Italia è chiarissimo il ruolo nefasto che due decadi di Cairo hanno avuto nella progressiva de-granatizzazione del Torino inteso non solo come società calcistica, ma come somma di valori e visioni che vanno al di là del mero ambito sportivo, nel resto del mondo calcistico si fa fatica a comprendere il perché di tanto astio nei confronti dell'attuale presidente granata.
Al grido di "tanto è impossibile vincere qualcosa oggi" ogni sforzo di riappropriarsi della nostra identità granata, vilipesa e sminuita ormai da troppi anni, viene liquidata in quattro e quattro otto dai paladini del calcio business, quel calcio "di plastica" dove non c'è più spazio per il romanticismo e per una sana competizione sportiva. Eppure il tifoso del Toro non ha come religione quella del vincere ad ogni costo perché non è nella vittoria tout court che risiede la sua unica soddisfazione sportiva. Al tifoso granata innanzitutto dev'essere concessa la possibilità di poter provare a vincere, meglio se da underdog, cioè da sfavorito, come dicono gli americani, ma comunque in lizza per, almeno teoricamente, provarci seppur alla lontana. Poi al tifoso granata piace vedere che la squadra ci prova alla "sua maniera" usando la strada più difficile e mai la scorciatoia: vuole il sudore, vuole le lacrime, vuole il sangue e vuole sapere che nei novanta e passa minuti di gioco nulla sarà lasciato di intentato per provare a piegare quel destino che spesso gli ha messo e gli mette i bastoni tra le ruote. È per il tifoso granata, in generale, una questione di mezzo che è quasi più importante del fine. Una roba che poco ha a che fare con i fatturati, i procuratori e il resto del baraccone "di plastica" che i signori delle tv vogliono spacciarci per "spettacolo" pur di confondere ciò che era il vero spettacolo del calcio, ossia una chiara allegoria della vita, con questa versione moderna più simile ad un film che alla realtà e più finto del wrestling.
All'estremo opposto di questa posizione ortodossa della fede granata c'è la gestione del presidente Cairo che non ha mai saputo né voluto capire cosa la piazza "sentiva" per impostare, nei parametri economici che gli erano propri, una strategia di gestione del club che soddisfasse in parte o in toto queste esigenze, nel solco però di una volontà di base di ambire a competere. Molti, esterni alla vita cittadina, giustificano questa assenza di ambizione di Cairo con l'impossibilità odierna di competere, anche volendo, con un vicino "scomodo" come la Juventus. Ma la verità è che il vicino scomodo c'è sempre stato solo nei 100 anni precedenti alla presidenza Cairo nessuno, sulla sponda granata, si era mai rassegnato ad esserne così succube al punto da perdere 23 derby su 31 e a fare meno punti di qualunque altra squadra (e sottolineo qualunque, intendendo per qualunque anche quelle più scarse che vi possano venire in mente) che abbia mai giocato con i bianconeri negli ultimi vent'anni. E prova ne è il fatto che i tifosi juventino intonino ormai ironicamente cori a favore del presidente Cairo. Che sia un destino per i granata quello di scarsa ambizione legato alla città di Torino lo si può forse evincere pensando ad una situazione che presenta parecchie analogie con la nostra realtà ma in un ambito sportivo differente, quello cestistico. Parliamo della Torino del basket, quella di Basket Torino sponsorizzata Reale Mutua, attualmente in serie A2 (l'equivalente della serie B nel calcio) e che lì pare destinata a restare da quando la società è finita nelle mani di David Avino, imprenditore e proprietario di Argotec, società aerospaziale specializzata nella costruzione di piccoli satelliti.
Dopo i brevi, ma eccitanti fasti dell'ultima Auxilium Torino del notaio Forni che portò la società a vincere una Coppa Italia e poi a fallire subito dopo (un concentrato in pochi anni di quanto successo al Torino Calcio nel lungo periodo che va da Borsano fino a Cimminelli), Torino è rinata grazie a Sardara, patron di Sassari, il quale però non ha potuto tenere a lungo l'impegno in due società professionistiche di alto livello ed ha passato la mano proprio ad Avino. L'entusiasmo per l'arrivo di un imprenditore ambizioso (nel suo campo... e già qui cominciano le analogie con Cairo) si è subito spento di fronte ai budget risicati e alle prospettive poco chiare che hanno caratterizzato le prime stagioni con alla guida il nuovo patron. Mentre la sua azienda cresceva esponenzialmente di fatturato (da 8 milioni a circa 50 di quest'anno) Basket Torino è rimasta sostanzialmente al palo generando tanta frustrazione nella tifoseria alla quale appare chiaro che non c'è l'intenzione di competere per traguardi prestigiosi (in primis la promozione in serie A1). Chi a Torino è tifoso di entrambe le squadre vive una specie di doppio limbo dal quale non sembra esserci via d'uscita. In città sembra esserci solo spazio per una realtà di profilo internazionale, ovvero la Juventus, mentre per il Toro e per le società degli altri sport, nonostante un passato di successi ad esempio nella pallavolo degli Anni Ottanta o nel calcio a 5 degli anni Novanta e Duemila, il territorio non attira investitori sportivi che possano portare successi e trionfi, che diano lustro alla città e che non si chiamino Agnelli.