Granata dall’Europa

Così non VAR

Così non VAR - immagine 1
Nuovo appuntamento con "Granata dall'Europa", la rubrica su Toro News di Michele Cercone
Michele Cercone Columnist 

Il VAR (assolutamente al maschile: assistente dell'arbitro al video, garantisce l'Accademia della Crusca) è nato come strumento per portare nel calcio una nuova forma di oggettività e soprattutto per combattere la fortissima impressione dei tifosi che fosse troppo facile per i direttori di gara influenzare l’andamento delle partite. Il protocollo VAR, così come applicato al momento, ha chiaramente fallito l'obiettivo. Invece di placare sospetti e polemiche, li ha moltiplicati e resi ancora più aspri. L'ultima giornata di serie A ha presentato uno spaccato esemplare delle pecche e dei difetti strutturali dell'attuale protocollo, evidenziandone l'inutilità, l'irrazionalità, l'arbitrarietà e l'inefficienza. Si parte dall'inutilità con il fallo di mano di Gatti: episodio chiaro ed evidente, da punire con il rigore, e che grazie alle immagini VAR può essere rivisto cento volte. Tuttavia il problema interpretativo rende inutile ogni tecnologia: non c'è uniformità nel valutare un fallo di mano, alla fine decide l'arbitro di testa sua. Per il direttore di gara, il VAR e persino per i vertici AIA, il tocco di Gatti non è da rigore: andatelo a spiegare al povero Fabregas che di calcio ne capisce sicuramente più dei signori in giallo che si affannano nel tetratricologico sforzo di darsi ragione a tutti i costi. Passiamo all'irrazionalità con l'espulsione di Tomori, che richiama alla memoria il Catch 22 di Heller, con il suo famoso comma: ''chi è pazzo può chiedere di essere esentato dalle missioni di volo, ma chi chiede di essere esentato dalle missioni di volo non è pazzo''. Tomori affronta Colombo che è partito in posizione di fuorigioco, ma il guardalinee non può e non deve sbandierare (in base alle nuove regole), il gioco continua e Tomori stende Colombo prendendosi il secondo giallo e l'espulsione. Il VAR non può intervenire sui cartellini gialli, e la frittata è fatta. Il vero paradosso? Tomori avrebbe fatto meglio a far andare l'avversario indisturbato verso la porta e Maignan avrebbe dovuto fargli segnare un gol che sarebbe stato annullato per off-side. Simpatico, vero? Il capitolo arbitrarietà potrebbe contare centinaia di pagine, ma è ben sintetizzato da un episodio di Atalanta-Torino, in cui Saul Coco tocca la palla in area con il braccio che tende ad allargarsi. Rigore? Molto probabilmente si, ma non è questo il punto: il VAR deve mandare l'arbitro a rivedere quella situazione perchè è un possibile grave errore e, da protocollo, deve essere analizzato più a fondo attraverso le immagini disponibili. Ma se il VAR non lo chiama, l'arbitro non va e nessuno può obbligarlo, fine della discussione.

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Un torto fatto al Toro sabato scorso testimonia invece l'inefficienza dell'attuale sistema: la trattenuta su Sanabria in chiusura di gara è evidente ed ha tutte le caratteristiche previste dal regolamento per far sorgere il dubbio che si tratti di un fallo: la trattenuta è prolungata, il giocatore granata è sulla traiettoria della palla, l'intervento impedisce all'attaccante di raggiungere la sfera. Incapace l'arbitro in campo e forse ancor di più il varista che vede e rivede l'azione commentandola senza cognizione di causa. Senza formazione e conoscenza delle regole anche la disponibilità di immagini nitide serve a poco. Insomma, l'introduzione di sofisticati sistemi tecnologici invece di dissipare i dubbi, ha finito con il mettere ancora più in mostra i limiti del fattore umano, sollevando ulteriori interrogativi. Certo, non tutto è da buttare, e alcuni progressi si notano, come ad esempio il fuorigioco semi-automatico che sta funzionando bene. Tuttavia il problema di fondo resta, ed è legato al protocollo di utilizzo delle tecnologie disponibili che continua ad alimentare le zone d'ombra. Si tratta di un problema destinato a tormentare il mondo del pallone fino a quando non si farà chiarezza su quello che si vuole ottenere. L’aspettativa dei tifosi è veder ridotto al minimo indispensabile l'enorme potere arbitrario affidato ai direttori di gara. Non si può pensare che in Italia, dopo Calciopoli, un tifoso non valuti le decisioni degli arbitri alla luce sinistra di un passato che ha cancellato l'anima stesso del calcio. Se altri sport quali il rugby, il tennis, la pallavolo possono ancora contare su un'innocenza sportiva che esclude alla base la malafede degli arbitri (e rende più facile per giocatori e spettatori accettare le decisioni dei direttori di gara, anche quelle sbagliate), il calcio ha perso questa innocenza, e solo un sistema di regole ferree e di supporti tecnologici oggettivi usati in maniera trasparente può dissipare il dubbio che si sia trasformato in un wrestling con la palla. Quello che va subito disarticolato è il principio dell'arbitro quale giudice assoluto. Solo nel calcio il direttore di gara è ancora anacronisticamente padrone indiscusso ed unico di tutti gli aspetti del gioco, dall'intensità dei contatti alla durata della gara. Perfino l'introduzione del sistema di revisione video è stata concessa solo a condizione che la scelta di farvi ricorso sia opzionale per l'arbitro! Un po' come dire che un giudice ha la facoltà di decidere se applicare o meno il codice penale.

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I rimedi, anche rapidamente applicabili, ci sono: il diritto di revisione su richiesta dell'allenatore risolve quasi tutte le controversie sui tocchi a muro nella pallavolo; l'introduzione del tempo semi-effettivo nel rugby permette di fermare il cronometro e evitare perdite di tempo; nella NBA i nuovi sistemi di formazione degli arbitri e il ricorso alla tecnologia hanno permesso di raggiungere il 94% di decisioni corrette su una media di 500 chiamate a gara; nel tennis ormai la decisione su palla dentro o fuori è automatica (immaginate che progresso potrebbe rappresentare per attribuire correttamente falli laterali e calci d'angolo). Nel calcio invece si continua ad insistere su un sistema centrato sempre e soltanto sull'arbitrio degli arbitri (bisticcio perdonabile spero), mentre i protocolli d'uso relegano sullo sfondo gli strumenti per garantire maggiore oggettività. Alla base di questa marcia al rallentatore verso il futuro c'è una governance delle regole del calcio che per alcuni può anche avere un fascino retrò e essere letta come un tentativo di preservare la purezza originale del football, ma che in realtà assomiglia ad anacronistici protettorati britannici stile Isole Falkland o Tristan da Cunha. Chi decide è l'IFAB (International Football Association Board) che conta solo otto membri: quattro designati dalla FIFA e quattro dalle Federazioni calcistiche del Regno Unito (Inghilterra, Scozia, Galles, Irlanda del Nord). Le regole di uno sport che conta miliardi di fan e centinaia di federazioni in tutto il mondo, vengono decise da un mini-club in cui un solo paese ha il 50%  dei voti. E attenzione: nessuna decisione può essere approvata senza il placet di almeno due federazioni britanniche! Dunque i membri gallesi, nordirlandesi e scozzesi dell'IFAB hanno il diritto di tenere in scacco l'intero mondo del pallone. E' un po' come se Lombardia, Abruzzo e Molise avessero il diritto di veto sulle decisioni dell'ONU. In realtà questa farraginosa e anacronistica governance è funzionale al mantenimento di quella zona d'ombra tra valutazione soggettiva e arbitrio che è la vera spada di Damocle sul presente e sul futuro del calcio. E' tempo di eliminare questa zona grigia, cominciando dall'introduzione del challenge e del tempo effettivo di gioco, per poi proseguire sulla strada di una maggiore automazione delle decisioni. E va fatto al più presto perchè è proprio in queste crepe che si insinuano le Calciopoli, gli scandali alla Blatter, le infiltrazioni criminali nel mondo delle scommesse e le tante altre storture che stanno avvelenando il calcio e allontanando i tifosi.

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