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L’infanzia di Kobe Bryant, era ancora il periodo in cui in Italia si vedevano adolescenti giocare a pallone in spazi di fortuna ricavati nella città, un tempo “raccoglitrice” di utopie e sogni di tutte quelle persone giunte dalle campagne ed andata a formare la classe lavoratrice urbana. Tutto nella città era possibile, perché l’immaginazione aveva corrispettivi concreti in cui incunearsi a creare utopie possibili. Bastava prendere un autobus e passare accanto ad uno stadio, e allora in quel momento l’utopia possibile, uno dei più affascinanti ossimori esistenti, prendeva forma, perché era proprio l’esistenza dello stadio a giustificare tutti quei colpi provati e riprovati con gli amici in un campo ricavato tra un palazzo e l’altro. E nel campo di fortuna gli adolescenti giocavano e, mentre tiravano calci ad un pallone, parlavano. Erano liberi di potersi dire il voluto, perché giocare gli permetteva finalmente di affrontare il mondo da soli, senza la presenza di qualche adulto a cercare in modo ossessivo di spiegargli come evitare gli errori, privandoli così dell’esperienza autonoma. Parlando, la lingua si arricchiva con il vissuto, con l’espressione di un viso a supporto della parola a far scoprire i dettagli nascosti dell’esistenza. Ci si conosceva e ci si appropriava della vita e del territorio. Niente scuole calcio a spiegare ciò che non si può spiegare, e cioè a cosa serve realmente il talento donato dal Creatore. Bisogna scoprire da soli, prima di poter scegliere da soli, poi sì ha senso la didattica degli adulti.
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Deve aver molto colpito, a Kobe Bryant, tutto questo parlare per strada, tanto che non perdeva occasione di parlare italiano con tutti quelli con cui gli fosse possibile farlo. Persino con le sorelle. Si vedeva che quel parlare italiano nell’adolescenza lo aveva segnato profondamente. Era il parlare dell’Emilia profonda, musa del mondo delle osterie dove “gli orchestrali” bolognesi cantati da Francesco De Gregori mettevano in piedi ogni giorno “curve della memoria”. In quei luoghi dove per Stefano Benni c’era sempre un pianista ad aspettarci in fondo al locale, e il dovere di provare a provare diventava imperativo categorico, tra risate e ironie indicibili. Poteva, Kobe, fare un impossibile canestro da tre punti e un secondo dopo ammiccare sorridendo verso uno spettatore, perché il basket “è un gioco, semplicemente un gioco. Devi recuperare l’istinto di quando eri bambino”. E l’istinto fanciullesco di Kobe Bryant si era formato in Italia, dove il calcio e il Milan di Marco Van Basten era diventato la sua vera passione di spettatore di sport. Ecco perché amava ricordare che, in fondo, da spettatore era il calcio il suo sport numero uno. Era ostinato nel suo voler manifestare il suo amore verso l’Italia, si vedeva che nel BelPaese era veramente stato felice. “La felicità – disse una volta Roberto Benigni parlando in televisione dei dieci comandamenti – ce l’hanno data in dono quando eravamo piccoli. Ed era un regalo così bello che lo abbiamo nascosto come i cani fanno con l’osso. E molti di noi l’hanno nascosto così bene che non si ricordano dove l’hanno messo. Ma cercate e buttate tutto all’aria e vedrete che riesce fuori. E anche se lei, la felicità, qualche volta si dimentica di noi, noi non ci dobbiamo dimenticare di lei”. Il gioco, lo sport ci danno la possibilità, specie nell’infanzia e nell’adolescenza, di concentrarci sui nostri pensieri buoni, che rimarranno per sempre dentro di noi come un alito di nostalgia a spingerci a guardare sempre le cose migliori della nostra esistenza.
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Ed è così che Kobe Bryant aveva afferrato lo spirito ultimo dell’Italia: incontrando, parlando e giocando. Non l’aveva più dimenticato questo spirito, e credo che con lui l’America avesse un emigrato italiano in più. Lui, Kobe, non si sarebbe sorpreso come Aldo Moro nel vedere, passando con la sua automobile ministeriale, un giorno una scena incredibile davanti al Ministero degli Esteri: Enrico Berlinguer, con i pantaloni arrotolati verso su, si era messo a giocare a pallone con dei bambini. Colui che era il potente capo del più grande partito comunista occidentale amava il calcio, e il Cagliari, sin da bambino, e quei pantaloni arrotolati erano stati il chiaro sintomo di un’improvvisa voglia di felicità. Era l’Italia della seconda metà degli anni settanta, sempre in preda alle sue crisi cicliche ma mai dimentica di cosa fosse e di dove stesse andando. Fa tristezza pensare come oggi Enrico Berlinguer non troverebbe più nessun bambino con cui giocare per strada, e forse sarebbe il momento di pensare a come riappropriarsi del diritto alla città, per allontanarsi definitivamente da quel sogno americano che ha fatto diventare i sogni delle prestazioni, e le città più che luoghi dove si fa memoria dei luoghi dove si fanno degli investimenti. Persino nelle vite dei nostri figli. Ma l’Italia, a guardarsi intorno, ha fortunatamente tanta bellezza e tanta storia da poter permettere, a chi solo lo volesse, di riacchiappare all’improvviso il senso di essere italiani. Perché amare l’Italia a volte è complicato, ma non amarla sarebbe impossibile. Kobe Bryant ed Enrico Berlinguer, da dovunque ora si trovino, staranno ammiccando sorridendo. Ne sono sicuro.
(Ha collaborato Carmelo Pennisi)
Anthony Weatherhill, originario di Manchester e nipote dello storico coach Matt Busby, si occupa da tempo di politica sportiva. E’ il vero ideatore della Tessera del Tifoso, poi arrivata in Italia sulla base di tutt’altri presupposti e intendimenti.
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