Shirley Babashoff è nata nel 1957 a Whittier, un piccolo centro della contea di Los Angeles, fondato da una comunità quacchera verso la fine del 1887. La Babashoff cresce in un contesto da cristianesimo primitivo (come i quaccheri amavano ed amano definirsi), credendo in un mondo fatto da “una comunità di amici”, piuttosto che da nemici da cui stare in perenne allerta. In realtà sarebbe troppo semplificante e manicheo descrivere il mondo come un’eterna rappresentazione di lotta tra nemici; quindi forse sarebbe meglio descriverlo come un luogo dove ognuno cerca di portare avanti le proprie ambizioni, a volte incuranti delle conseguenze. Shirley Babashoff è stata probabilmente la nuotatrice americana più forte di tutti i tempi, con la “macchia” di non aver mai vinto un oro olimpico in una gara individuale. Trovò la strada sbarrata dalle valchirie tedesco/orientali (DDR), donne incastrate in corpi somiglianti più a profili mascolini che femminei. Sarebbe stato evidente trovare qualcosa di strano in quei corpi contro natura, sarebbe stato logico un intervento tempestivo da parte delle istituzioni sportive. Ma il Comitato Olimpico Internazionale non intervenne mai, nonostante la nuotatrice americana avesse protestato a più riprese in modo veemente. La Babashoff richiedeva, semplicemente, un gioco corretto e leale, ma ottenne solo di farsi la fama di “sore loser”, che tradotto in italiano vuol dire una “che non sa perdere”.
Oggi sappiamo che nella DDR vennero portati avanti programmi dopanti dai connotati di veri esperimenti eugenetici, atti a portare medaglie e gloria al socialismo tedesco. Quelle che un tempo furono valchirie, oggi sono o decedute o ridotte a rottami umani da quello che è stato definito il programma dopante più imponente di tutti i tempi. Shirley Babashoff non era una che non sapeva perdere, ma era una sportiva ridotta a vedere svilito il suo talento, per colpa di istituzioni sportive così omissive, da non rendersi conto che in quei corpi mascolini delle nuotatrici tedesche c’era proprio qualcosa di non pulito. Tempo fa, nel corso di un’intervista che la riabilitava da una che non sa perdere a novella Don Chisciotte, Shirley Babashoff ha confessato di non avere nessuna empatia per quelle nuotatrici tedesche oggi malate a causa del doping: “sapevano che stavano barando. Lo sapevano e hanno continuato a giocare sporco. Tutti oggi parlano del loro dolore, e in parte lo comprendo. Ma chi comprende me? Chi mi restituirà la medaglia d’oro che non ho potuto vincere? Chi mai potrà ridarmi quel magico momento in cui si tocca il bordo della vasca per primi”? Ecco il cuore della questione, egregio Aleksander Ceferin: certi momenti non tornano più. E se l’Uefa concluderà che il PSG è colpevole di doping finanziario, il pensiero andrà a tutti quei giocatori dei club francesi che, come Shirley Babashoff, non hanno avuto l’opportunità di competere correttamente con Il club parigino. E nessuna sentenza, per quanto dura, potrà mai restituire a quei giocatori dei momenti di gloria che avrebbero potuto avere. Nessuno potrà restituire ai tifosi quella gioia che avrebbero potuto provare.
L’ottimo Filippo Facci giorni fa ha scritto sul quotidiano “Libero” che tutti noi amiamo il calcio perché è “lo sport più ingiusto del mondo”, e in qualche modo lo rende lo sport più somigliante alla vita di tutti i giorni, alle angherie che sopportiamo. Mi permetterà Facci di dissentire; io credo che noi amiamo il calcio perché è sempre stato imprevedibile nel risultato. Un imprevedibilità dai connotati apparenti a volte ingiusti, ma che ha regalato il “miracolo di Berna” nei mondiali del 1954, e la vittoria dell’Italia sul Brasile nei mondiali del 1982. Un proverbio arabo dice: “non arrenderti. Rischieresti di farlo un ora prima del miracolo”. Proteggiamo questa speranza. Proteggiamola prima di diventare tutti scettici e cittadini di un mondo inesorabilmente ingiusto.
(ha collaborato Carmelo Pennisi)
Anthony Weatherhill, originario di Manchester e nipote dello storico coach Matt Busby, si occupa da tempo di politica sportiva. E’ il vero ideatore della Tessera del Tifoso, poi arrivata in Italia sulla base di tutt’altri presupposti e intendimenti.
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