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“Una storia è come una conchiglia: all’orecchio vi racconta l’oceano”
Marie-Helene Delval
“Finì tutto quella domenica 1 maggio 1994 a Imola e due giorni dopo, martedì 3, facemmo l’ultimo viaggio insieme. Volo Varig da Parigi a San Paolo. Business Class. Lui nella bara sistema lì, tra i passeggeri, avvolta nella bandiera verde e oro del Brasile che amava tanto. Ed io di fianco. Ci siamo parlati tutta la notte, Ayrton. Non mi crederà mai nessuno, eppure la sentivo ancora, la tua voce. La sento ancora, sai”? Ogni volta, da qualche anno, che giunge la vigilia del Gran Premio di Monza penso a qualche sua frase ironica, ai suoi pensieri che all’improvviso possono diventare malinconici e battiti di cuore. Vorrei parlarti, a te che hai la pazienza di leggermi per non sentire solo barlumi di tifo, di Leo Turrini, l’ultimo grande cantore dello sport italiano fatto di anima e di tasti pigiati per rimanere. Leo(spero non si offenderà se lo chiamo per nome) non scrive per fare cronaca, ma scandaglia l’esistenza che attraversa lo sport, nella speranza di completare la tela di Penelope dei nostri sentimenti. Viene al mondo a Sassuolo, in quella “Via Emilia e il West” che è perifrasi dell’ironia emiliana mischiata con il desiderio di trovare la donna giusta, anche fosse solo per un attimo, in un anonimo autogrill mentre attendi il tuo caffè. E qui che Francesco Guccini situa una delle più belle canzoni italiane di sempre, dove il sax finale a chiosare “Autogrill” pare non voglia finire mai, per paura possa interrompersi una magia destinata a non tornare mai più. E’ la sintesi di Turrini, rimasto seduto con il cuore su una collinetta prospiciente al circuito di Fiorano, nella speranza di vedere passare ancora una volta la Ferrari numero 27 di Gilles Villeneuve. Il giornalista emiliano è uno dei pochi ad aver capito come il compianto pilota canadese sia piantato ben saldo nella mappa dei sentimenti degli sportivi italiani di ogni tempo. C’è il Grande Torino, c’è Fausto Coppi, c’è Tazio Nuvolari, e poi c’è lui, Gilles. Ogni volta che ne parla ti da la sensazione di aver posato sul tavolo un fiasco di lambrusco, per abbandonare l’ironia emiliana e calarsi nel ricordo dei dolori piacevoli. No, no non è masochismo, è culto dell’amore vissuto e andato via, con il giornalista, quello vero, che mentre lo racconta prova vanamente a trattenere questo suo eterno lasciarci sul più bello. I vecchi tifosi del Toro conoscono bene tale sensazione, e non solo quelli che c’erano prima dell’apocalisse del 4 maggio 1949, ma anche quelli del 1967(un ribaldo che contribuirà al fallimento del Toro, mette sotto la sua macchina Gigi Meroni. E cosa gli vuoi dire?) e del 1976(anno dello Scudetto e di Giorgio Ferrini che ci lascia). Il tempo scorre e “strappa”, come il più abile degli scalatori del “Mont Ventoux” del “Tour de France”. E’ la vita che si fa scenografia dei sentimenti, questo è lo sport raccontato dai grandi giornalisti come Leo Turrini. Ci mettiamo ogni volta davanti ad un avvenimento sportivo, e in realtà non sappiamo dove questo ci porterà, possiamo solo viverlo essendo consci di sopravvivergli.
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Il sopravvissuto non è un reduce, quest’ultimo vuole dimenticare, mentre il primo è lo spaventapasseri di ogni cinismo. Turrini ha confessato più volte di temere di fare la figura del “guardone”, perché sa di voyeurismo fastidioso passare davanti alla “Generazione d’Oro” della pallavolo italiana del 1996, impegnata in un sottoscala a bordo campo a cambiarsi delle magliette sudate. Ma non è il sudore e la violazione involontaria di una intimità a rammaricarti, ma il ricordo di un momento della finale olimpica non sapendo ancora che l’avremmo persa; e allora, siccome ami la pallavolo forse anche più della tua amatissima Formula 1, facesti con te stesso la classica scommessa del vizioso impenitente: “se ce la fanno(a vincere), anzi se ce la facciamo, io la smetto con questa fregatura della sigaretta. La bionda l’accendo ancora, perché è andata come è andata”. Anni dopo scriverà un bellissimo articolo sui ragazzi del 1996 della nostra pallavolo, in cui trasuda tenacia perché il Paese non dimentichi una generazione di giocatori come non ne vedremo mai più. Li nomina uno per uno, e con i loro soprannomi, ed è un rosario d’amore come raramente sono usciti dal cuore e da una penna. E al “tie break” di quella maledetta finale olimpica gli da del fottuto, come fosse uno dei celebri cattivi dei film di Quentin Tarantino. Leo non smette mai di sperare, anche quando è costretto a lasciare andare i suoi eroi. Lui è la tempra di quell’Italia che forse non c’è più, o magari e sottocoperta in attesa di ritornare in plancia per gridare una terra all’orizzonte. Leggendolo, a tratti la mano mi va sul telefonino, e l’istinto è cercare il numero di un amico volato via, il numero di un grande giornalista cantore dei nostri sentimenti e visualizzatore meraviglioso di ogni ironia: Gianni Clerici. Vorrei comporre il numero, come ho fatto innumerevoli volte. Per chiedergli lumi sul tennis e altre storie: “Gianni, spiegami, perché proprio non lo capisco: perché non riesco ad amare Jannik Sinner?”. Gianni, sono sicuro, riuscirebbe a spiegarmelo facendo un piacevole giro lungo, andando a doppiare il “Capo Horn” di ogni storia e di ogni sentimento, e anche di ogni pregiudizio. Ma Gianni Clerici non c’è più, ed io conservo il suo numero come fosse una stele dove ogni tanto rivolgergli una buona preghiera. I grandi giornalisti, specie in questa contemporaneità dove tutti hanno una opinione da essi ritenuta fondamentale, lasciano un vuoto quasi incolmabile quando se ne vanno via. Rimangono i loro racconti, risultato di occhi toccati dalla Grazia. Le loro parole non sono adulterate in un molto peggio come la mitologica “Acqua di Fuoco”,venduta dai “bianchi” della frontiera del “West” a dei “Pellerossa” destinati a soccombere nel futuro, che non è mai radioso per tutti. Chi adultera le parole vuole solo il nostro consenso e la dispersione della nostra ragione, chi suona il verbo della “Grazia” vuole far muovere il nostro cuore e far suonare in modo intonato le corde del nostro discernimento.
Lo sport è capace, come nessuna altra cosa, di portarti alla tua condizione di bambino, e quando questo avviene abbandoni la condizione di tifoso, per relazionarti con lo stupore generato dalla grandezza. E’ il momento in cui capisci di essere sì un essere vivente “finito”, ma incastonato in un progetto di grandezza. La cosa in Turrini avviene nel 1986 a Parigi-Bercy, e di mezzo c’è ancora una volta la sua amata pallavolo. Si gioca l’attesissima finale mondiale tra Usa e Urss, e gli americani sono freschi della medaglia d’oro olimpica vinta a Los Angeles, una medaglia d’oro considerata da tutti monca: a Los Angeles i sovietici, per i noti motivi politici, non c’erano. Quel giorno il cielo di Parigi si illumina per le prodezze di Charles “Karch” Kiraly, il più grande pallavolista di tutti i tempi. L’atleta americano di origini ungheresi sale sulle vette più alte del talento, lasciando al giornalista emiliano un ricordo indelebile: “…in tribuna facevamo la bocca a culo di gallina: stupiti, sbalorditi, persino sbigottiti. Era troppo grande, quell’americano di origini ungheresi”. I grandi giornalisti sportivi vanno sempre a dormire più tardi degli altri, per avere cinque minuti in più da raccontare, o magari perché di chiudere gli occhi proprio non ne vogliono sapere. Loro sanno arrivare dove il nostro pudore si ferma, impedendoti di scrivere quel che sarebbe giusto scrivere: “quando la squadra(la Ferrari) che è un po’ il simbolo dell’italianità ce la fa ad imporsi, a Monza, nel tempio della velocità, è impossibile restare indifferenti”. Negli occhi e nella mente di Turrini, la Formula 1 sfida lo scetticismo nichilista verso la tecnica di uno come Martin Heidegger: quei bolidi sono la disputa degli uomini con il futuro, che senza il coraggio degli uomini sarebbe impensabile. Aspetterò, caro Leo, il giorno dopo la liturgia del Gran Premio di Monza per cercare con avidità un tuo commento, anche piccolo. Ci troverò, lo so già, la tua grazia e la tua ironia da emiliano fottutissimo amico: “mi stropicciavo gli occhi quando nel 2012 Pastor Maldonado vince a Barcellona. Dico, Maldonado. Fu un evento talmente folle che, dopo, scoppiò pure un incendio ai box”. E poi: “c’è un figlio di contadini dell’Emilia profonda- Da lì viene il maratoneta Stefano Baldini, è il prodotto, forse l’ultimo, di una civiltà rurale che la modernità ha inghiottito. Nelle sue falcate armoniose, c’è l’eco di una cultura antica: la cultura che rispettava e onorava la fatica”. Dovessero leggerti le mie nipoti, forse capiranno qualcosa del Paese in cui sono venute al mondo. Grazie Leo.
Scrittore, sceneggiatore e regista. Tifosissimo granata e già coautore con il compianto Anthony Weatherill della rubrica “Loquor” su Toro News che in suo onore e ricordo continua a curare. Annovera, tra le sue numerose opere e sceneggiature, quella del film “Ora e per sempre”, in memoria del Grande Torino.
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