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Lavagnetta Granata: Toro, è il momento del tilt?
Inutile raccontare purtroppo le ultime due partite in casa granata essendo che, purtroppo, gli spunti tattici sono notevolmente troppo pochi e il rapporto gol fatti/gol subiti racconta 2/7…
Non è una novità che la rosa Granata pecchi di conoscenze calcistiche di base e che purtroppo, di anno in anno, la qualità della rosa peggiori, ma la caratteristica più evidente ad oggi sembra essere la mancanza di voglia di migliorarsi, “la mentalità vincente”, come si direbbe giustamente in una conversazione da bar. Questo aspetto, poi, unito alla fragilità generale, ha una sola inevitabile conseguenza: il Torino è una squadra che non parla la stessa lingua. Le due partite con Como e Lecce hanno mostrato in maniera fin troppo evidente come i reparti si muovano senza sincronismo, come manchino riferimenti chiari nelle transizioni e come ogni meccanismo collettivo salti alla prima difficoltà. Ciò che dovrebbe essere un automatismo diventa un gesto isolato; ciò che dovrebbe vivere di principi condivisi spesso si trasforma in un insieme di tentativi individuali. La squadra appare spesso lunga e slegata, nel momento in cui si perde il possesso con un posizionamento in campo a dir poco indecente. A Lecce, nei primi trenta minuti, il Toro non è riuscito nemmeno a proporre un’azione manovrata con continuità: i centrocampisti non lavoravano insieme e ogni pallone veniva gestito come se il compagno non potesse offrire un appoggio utile. È il segnale più chiaro di una collettività assente, e quando a dicembre un gruppo non riconosce più i propri riferimenti comuni, significa che il problema non è episodico ma strutturale.
L’impressione che emerge prepotentemente osservando il Torino in queste ultime settimane è che Marco Baroni si sia impantanato in un vero e proprio cortocircuito tattico, le sue idee non riescono più a stare in piedi di fronte alla realtà del campo. L'allenatore sembra intrappolato tra la volontà di imporre una struttura riconoscibile alla squadra e l'obbligo di adattarsi alle qualitativamente basse caratteristiche di questa rosa. Da un lato si può notare come Baroni resti aggrappato ai suoi dogmi: il gioco con la sola punta, la pressione alta e l'aggressività posizionale. Dall'altro, è la squadra stessa a dimostrare di muoversi con un minimo di logica solo quando quei principi vengono messi in discussione. L’ingresso di Zapata a Lecce non è stato un cambio che ha semplicemente sbloccato la gara; è stata dimostrazione di un contrasto tra ciò che il Torino è oggi e ciò che l'allenatore vorrebbe che fosse. Con due punte, il collettivo ha respirato, trovato ampiezza, e riusciva a salire in maniera più efficace grazie all’impegno costante che le due punte causavano alla difesa giallorossa; Vlašić riusciva a svariare meglio e di conseguenza il pallone viaggiava in maniera più fluida, proprio perché hanno iniziato ad esistere appoggi centrali che prima mancavano. Questo non è un caso, ma l'evidenza che il piano gara originario ha esaurito la sua efficacia dopo neanche 30 minuti di gioco, e che la squadra trova un equilibrio solo allontanandosi progressivamente dalla visione iniziale.
Il problema, però, va oltre questi concetti tattico-ideologici. È un tema di identità complessiva, che a dicembre dovrebbe essere ormai definita e non ancora in fase di ricerca. Una squadra che a questo punto della stagione si ritrova costretta a cambiare idee di gioco ogni due settimane nel disperato tentativo di trovare una versione funzionante di sé finisce inevitabilmente per perdere sicurezza, convinzione e continuità. Se non hai certezze, ogni errore in campo si fa sentire il doppio, perché manca quella base solida capace di assorbire l’impatto; ogni gol subito sul campo diventa per i nostri una condanna, essendo che manca il bagaglio di conoscenze strutturali basiche. È come se il Toro dovesse ricominciare il lavoro da zero ogni fine settimana, senza riuscire a costruire, un mattone sopra l'altro. Quando le fondamenta mancano, anche gli aggiustamenti tattici, pur corretti, diventano reazioni d’emergenza rischiando di diventare privi di efficacia. Dicembre dovrebbe rappresentare il momento delle certezze. Nel caso del Torino, invece, ogni partita sembra una storia nuova, scollegata dalla precedente. È questa incapacità di scegliere una direzione definitiva, che genera quel che definirei il cortocircuito oggi evidente non solo nei risultati, ma nelle scelte e nell'atteggiamento dei giocatori. Senza una linea guida chiara, il rischio è che le ultime due sconfitte non rappresentino il punto più basso, ma l’inizio di una crisi ben più profonda.
A questo punto, diventa inevitabile chiedersi quale direzione voglia prendere davvero questo Torino, perché la sensazione più chiara lasciata da queste settimane è che la squadra non sia all’altezza di questo campionato. Le sconfitte contro Como e Lecce fanno male non tanto per il risultato, che comunque pesa, quanto per ciò che hanno mostrato sul campo i Granata: un gruppo che non ha un’identità definita e che per questo fatica a reagire nei momenti di difficoltà. Ed è proprio per questo che ora serve una scelta, non una rivoluzione: ora serve una strada da scegliere con convinzione, un’idea che non cambi ogni due settimane e possibilmente un cambiamento tattico sulla difesa dei piazzati. Perché continuare così rischia davvero di trasformare questo tilt tattico temporaneo in una spirale già vissuta nella stagione 2020/21. Il tempo per risollevarsi c’è ancora, ma non è infinito.
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