Con queste premesse, appaiono comprensibili le pretese economiche dei giocatori danesi. In fondo sono loro i protagonisti dello spettacolo calcio. La famiglia Dassler è diventata straordinariamente ricca grazie a gente come loro. Le aziende manifatturiere che si espandono grazie alla visibilità che lo sport dà ai loro marchi, dando così lavoro a migliaia di persone, è a gente come i calciatori danesi che deve gran parte di tutto. Quindi, a fronte di un'analisi forse fin troppo frettolosa e superficiale, dovremmo essere tutti pronti ad esprimere solidarietà ai campioni scandinavi. Ma ci sono diversi "ma" da considerare in questa storia per niente edificante. Il primo "ma" riguarda chi, di fatto, sono i veri portatori d’acqua di tutto il castello economico ormai createsi intorno allo sport, e cioè i tifosi. Sono i tifosi a spendere il denaro che consente a tutti, aziende e atleti(e tv comprese), di far lievitare fatturati e conti in banca. Far scendere in campo una nazionale inadeguata all’evento (si ricordi che la Nations League assicurerà quattro posti al prossimo Campionato Europeo), è una totale mancanza di rispetto verso quelle persone che, grazie alla loro passione e al loro amore verso la nazione, permettono a tutti(calciatori, procuratori, dirigenti, aziende, tv, ecc) di godere di privilegi e onori difficili da calcolare, consentendogli lo svolgimento di vite alquanto piacevoli. Un altro ma, non meno importante, è la totale perdita di memoria quando ci si trova di fronte ai propri interessi. E’ facile dimenticare, quando in ballo ci sono tanti soldi, di fare alcune considerazioni di carattere etico, che forse farebbero arrossire un po’ di vergogna questi giovani uomini(perché tali sono i calciatori) e probabilmente li indurrebbero a mitigare un po’ le loro pretese.
Si parta da una domanda: quanto pesa una nazione, e la forza delle sue strutture sportivo/educative, nel far diventare un bambino pieno di sogni di gloria, un campione? Se non ci fossero campi di calcio, allenatori che in modo del tutto gratuito si preoccupano per pura passione di gestire il calcio dell’infanzia, se non ci fossero dei campionati organizzati dalle strutture sportive, se non ci fossero i finanziamenti a vario titolo che una nazione dà allo sport; se non ci fossero tutte queste variabili, davvero si pensa possano svilupparsi dei campioni? Ovviamente no, non potrebbero svilupparsi. Quindi il campione ha una nazione con le sue strutture e i suoi soldi(quindi i soldi di tutti) dietro le spalle, che gli ha consentito di realizzarsi come sportivo, consentendogli di strappare ricchi ingaggi alle squadre professionistiche in cui milita. Quest’epoca caratterizzata dallo sfrenato individualismo, ha rimosso il concetto di “comunità” come necessario deterrente dai pericoli derivanti dal narcisismo sociale. E’ la comunità, se adeguatamente rappresentata, che può riportare ognuno di noi con i piedi per terra, richiamandoci costantemente ai nostri doveri e alle nostre responsabilità. Dare indietro alla comunità, e del tutto gratuitamente, una piccola parte del molto ricevuto dalla comunità stessa dovrebbe essere un’aspirazione posta in automatico dal nostro comune sentire.
Se si ritiene ciò un’aspirazione corretta del nostro vivere, ne dovrebbe discendere che una prestazione professionale data per una rappresentativa nazionale, non può essere oggetto di una qualsiasi forma di remunerazione economica. Anzi, tutti i proventi generati da una rappresentativa nazionale dovrebbero essere messi a disposizione della federazione sportiva di riferimento, al fine di finanziare le necessarie attività sportive amatoriali per poter consentire ad altri giovani di praticare attività sportiva. Ciò si chiama responsabilità verso una comunità che ti ha consentito, con la sua forza, di farti arrivare al vertice piramidale di una professione. Il giocatore preservi un valore etico e comunitario almeno quando gioca in nazionale, visto che ha molti altri ambiti dove esercitare la giusta e cospicua monetizzazione del suo talento sportivo. Fa bene la federazione danese a non volersi piegare ad appetiti mai sazi, rischiando di sacrificare una qualificazione europea in nome di un principio che per tutti dovrebbe essere inderogabile: non si possono monetizzare all’infinito anche i sentimenti di una comunità.
Alla fine del film “Salvate il soldato Ryan”, un morente Tom Hanks dice a Matt Damon con l’ultimo alito di voce rimasto: “meritatelo”. Matt Damon, la cui salvezza è costata la vita a gran parte del plotone comandato da Tom Hanks, molti anni dopo, davanti la tomba del suo capitano su un prato verde della Normandia, sente il bisogno disperato di chiedere alla moglie:”mi sono comportato bene?Sono stata una brava persona?”. Molti oggi pensano che il successo dipenda solo dal loro talento e dalla loro volontà, dimenticandosi che a quel loro talento e a quella loro volontà è stata data un’opportunità: dalle loro famiglie, dalle loro comunità, dalle loro nazioni. Invito i giocatori danesi a meritarselo, perché essere una brava persona, alla fine di tutto, dovrebbe sempre valere la pena.
(ha collaborato Carmelo Pennisi)
Anthony Weatherhill, originario di Manchester e nipote dello storico coach Matt Busby, si occupa da tempo di politica sportiva. E’ il vero ideatore della Tessera del Tifoso, poi arrivata in Italia sulla base di tutt’altri presupposti e intendimenti.
© RIPRODUZIONE RISERVATA


/www.toronews.net/assets/uploads/202508/2152c6c126af25c35c27d73b09ee4301.jpg)