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L’allenatore tedesco era nel destino di Sadio Manè, perché un personaggio da favola non poteva non finire nella mani di un cacciatore di favole. Ci sono momenti in cui, in modo alquanto misterioso, le belle storie finiscono per incontrarsi in un unico luogo, e danno occasione di pensare. Siamo così presi dai nostri affanni, dalla nostra superbia, e persino dalle nostre improvvise tristezze, da dimenticare il mondo come un destino buono ad attenderci. L’odiernità ci avvelena, costringendoci al gioco o di essere sconfitti, o di essere vincitori. E comunque vada a finire non saremo mai un bello spettacolo. Forse al bene del mondo servirebbe il nostro tornare a credere alle favole, così, giusto per vedere se ribaltare il punto di vista della nostra storia sia ancora una cosa possibile. Il resistere di Manè al fascino di una Ferrari, non è una lezione di minimalismo o di decrescita felice, ma piuttosto una possibilità di comprendere il mondo come un lunapark di sentimenti veri, afferrabili e condivisibili con tutti. E la condivisione ricorda sempre l’idea di comunità, di qualcosa riconosciuta come nostra, perché ne arriviamo agl’anfratti addirittura solo con l’intuito. Sadio Manè, la storia del calcio, l’aspirazione alla normalità di Klopp, la storia a lieto fine di Adrian, ci ricorda che siamo persone inconsciamente alla ricerca della nostra origine. Forse l’unico mantra per cui vale la pena veramente vivere. Nell’origine si trova la serenità, perché lì risiede il motivo di senso. Ci sono presidenti di squadre di calcio, chissà perché, pervicacemente contro ogni tipo di origine, e sempre alla ricerca della novità perpetua. Forse perché i presidenti contemporanei, più che nelle favole tendono a riconoscersi all’incremento dei loro fatturati. La logica è quella di ritenere il futuro l’ambito giusto per la moltiplicazione del denaro. L’antico è visto come un già vissuto, e chi vorrà comprare mai il già vissuto? Sono pensieri enucleati in questo inizio di terzo millennio, dove il mercato globale pare essere assurto all’unica meta a cui aspirare. Il “c’era una volta” è stato sostituito con il “ci sarà e sarà fantastico”, il trionfo del concetto antropologicamente involuto dell’esistenzialismo pubblicitario. Le squadre per le quali teniamo più che includerci vogliono venderci qualcosa, e poco sono tollerate le proteste dei tifosi, perché nulla deve dar fastidio al processo di vendita. I 70 euro che Manè, grazie agli ingaggi stratosferici della Premier League, riesce a dare ogni mese a dei suoi connazionali sfortunati, sono solo un piccolissimo risarcimento del danno procurato dal denaro al gioco più bello del mondo. Bisognerebbe tornare a dare il nostro amato sport in mano ai cacciatori di favole, perché solo loro possono farsi la giusta domanda: a cosa serve il calcio per il bene del mondo? Trovare la risposta a tale domanda, sarà il crocevia per la risoluzione di qualche nostra ansia per il futuro.
Di Anthony Weatherill
(ha collaborato Carmelo Pennisi)
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