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In questi giorni Netflix ha messo in onda un’interessante serie tv (“The English Game”), che tratta le vicende degli albori della “Football Association Challenge Cup”, la famosa competizione oggi nota in tutto il mondo come “FA Cup”. Le storie di questo “drama” televisivo si dipanano attraverso due edizioni della competizione calcistica inglese più amata, mettendo in scena un’Inghilterra di fine ottocento vogliosa, da parte della sua borghesia industriale e della sua classe operaia, di partecipare da protagonista ad ogni aspetto della vita inglese, fino a quel momento di esclusivo appannaggio della nobiltà. La quale è prigioniera dell’idea di aver pensato e messo in piedi, lei e solo lei, tutto ciò che ha reso grande nel mondo il potere e il nome dell’Isola. La nobiltà inglese è convinta di essere la sola a poter continuare ad avere il diritto di stabilire cosa sia bene e cosa sia male per il destino dell’Inghilterra. Calcio compreso. Succede così quando mal si interpreta il grande privilegio di aver avuto dalla sorte la possibilità di nascere nella parte fortunata di un Paese. Ma il calcio ha in sé qualcosa di misterioso, qualcosa che racconta come tutti siamo nati realmente liberi e uguali non di fronte ad un ipotetico re, ma di fronte alla vita. Il calcio ci ricorda che la vita è nostra. In quei novanta minuti, in quel rettangolo di gioco, la gente spesso ha potuto vedere la propria storia, la propria felicità e finanche la propria possibilità di riscatto. Ecco perché, in una sequenza emozionante di “The English Game”, degli operai, ai quali è appena stato decurtato il salario del 10%, si mettono in fila per dare il loro contributo economico per finanziare la trasferta a Londra per il quarto di finale della Fa Cup della loro squadra del cuore, la squadra della fabbrica che gli ha appena diminuito la paga. Vanno in soccorso del proprietario della fabbrica, nonché proprietario della squadra, al quale le banche hanno chiuso temporaneamente i rubinetti. Ma loro, gli operai, non possono accettare il pensiero di non sfidare gli “Old Etonians Football Club”, squadra composta da ex studenti del prestigioso “Eton College”, il luogo storico dove ogni potere inglese si comincia a formare. Quando qualcuno sostiene il calcio essere solo un gioco mi vien da sorridere, perché, nel tentativo di voler dimostrare all’uditorio come lui abbia ben chiare quali siano le priorità della vita, finisce solo per dimostrare come della vita abbia capito ben poco. Quella sequenza di “The English Game” sta lì a dimostrarlo. Ben lo comprende uno dei caratteri principali della serie, Lord Kinnaird (che sarà per anni presidente della “Football Association”), che di fronte alle rimostranze dei nobili per niente inclini a voler concedere modifiche ai regolamenti della “Fa Cup” richieste dalle squadre operaie, chiosa in modo deciso: “E’ vero, le regole di questo gioco le abbiamo fatte noi nobili. Ma il gioco non è il nostro”.
Ecco, forse la questione sta proprio in questa considerazione. Dobbiamo ricordare, in questi tristi giorni del Covid-19, come nessuno sia proprietario delle nostre vite, come nessuno possa liberamente disporre di tutto ciò che è stato costruito nel tempo e dai sacrifici di generazioni di persone. Ci sarà da ricostruire al rientro nelle nostre attività lavorative, perché molto è andato distrutto a causa di questo blocco di tutta l’attività economica nazionale. Ma la nazione non è solo della classe dirigente, che in nessun modo si potrà arrogare il diritto di decidere come il Paese andrà ricostituito. Nessuno provi, approfittando delle macerie e del suo potere, a pensare di ricostruire i beni comuni secondo la sua personale visione del mondo. “La Champions League vale 1,5 miliardi di diritti tv contro i 7 miliardi della NFL, nonostante le ricerche di mercato ci dicano che su due miliardi di tifosi sportivi nel mondo ben 1,6 sono tifosi di calcio e soltanto centocinquanta milioni di football americano. Questo deve far riflettere sul potenziale inespresso con i format attuali del calcio”. Tale disamina fu fatta da Andrea Agnelli nel gennaio 2016, di fronte ad un’estasiata platea di studenti dell’Università “Bocconi”, e definisce al solito l’orizzonte di chi comanda, ovvero la ricerca spasmodica del profitto. Solo del profitto. La questione sportiva? Non è mai in agenda per questi soggetti. Il profitto è importante, perché come si è detto le conseguenze economiche di questo gioco hanno consentito una vita dignitosa a molte famiglie, ma non bisognerebbe mai dimenticare come questo profitto sia frutto della passione dei tifosi, unici detentori dei destini del calcio. Ci vorrà del tempo perché si torni alla normalità, ma non si confondano le necessità dell’emergenza con l’accaparramento illegittimo di spazi di potere. Se il calcio dovrà essere riformato nelle sue strutture agonistiche, dovrà essere fatto con un necessario dibattito pubblico, e che i grandi giornali, al solito, non provino ad essere al servizio esclusivo dei soliti interessi costituiti. Il dopo verrà, il domani verrà: facciamo in modo di non farci trovare impreparati. “La vita è, di fatto, una lotta. Su questo pessimisti e ottimisti si trovano d’accordo”, ebbe a scrivere Henry James ammonendo a non abbassare mai la guardia, nemmeno davanti ad un sole radioso. Si sia pronti a partecipare ai cambiamenti del mondo, quindi, e non si permetta a nessuno di approfittare della nostra momentanea debolezza per relegarci ai margini della vita. Il gioco è di tutti: non dimentichiamolo mai. In bocca al lupo.
(ha collaborato Carmelo Pennisi)
Anthony Weatherhill, originario di Manchester e nipote dello storico coach Matt Busby, si occupa da tempo di politica sportiva. E’ il vero ideatore della Tessera del Tifoso, poi arrivata in Italia sulla base di tutt’altri presupposti e intendimenti.
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