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Quando si parla di business e di albori del libero mercato moderno, quasi sempre mi sovviene la storia di Henry John Heinz, che da Pittsburgh, nel 1869, partì alla conquista del mondo con l’invenzione del suo “ketchup”, variante di una salsa proveniente dalla lontana Cina. Oggi la Heinz Company, di recente finita nelle salde mani di Warren Buffet, è presente in 200 Paesi del mondo. Sembrerebbe una storia di successo da manuale, riflesso trionfante del business e del libero mercato. Tipica visione del mondo luterano, al quale Heinz apparteneva: il successo baciato dalla volontà di Dio. La benevolenza predestinata da Dio, procura ad Heinz l’idea che fa vincere il suo prodotto sui banconi di tutte le rivendite degli Stati Uniti: la commercializzazione in bottiglie di vetro del suo prodotto. La visione plastica attraverso il vetro del ketchup, da parte della potenziale clientela, ne determinò, su altri prodotti similari, l’incredibile incremento delle vendite. Appurato, da parte dei concorrenti, nel contenitore di vetro come fattore determinante del successo di Heinz, si provò ad imitarlo. E qui giunse una sgradita sorpresa: H J Heinz ogni qual volte voleva eliminare qualcuno dal mercato, comprava tutte le bottiglie di vetro disponibili, tratteneva quella che gli servivano e le altre le faceva buttare nel fiume. Questo scorrettissimo metodo andò avanti per qualche anno, tempo che servì al figlio di immigrati tedeschi di imporre definitivamente il suo marchio sul mercato. Siamo nell’America della seconda metà dell’ottocento, l’America della frontiera, l’America dell’esistenzialismo deterministico cristiano/protestante, l’America del capitalismo selvaggio. Non c’è posto per i più deboli. Quel che conta è vincere e avere successo. Semmai, una volta raggiunto il successo, si può anche pensare a promuovere qualche attività di “charity”.
Questa storia, se non fosse vera e provata, potrebbe essere ascritta come ipotesi di complotto, come atavica invidia verso chi ha avuto successo e soldi. Questa storia ricorda tanto il percorso che la Juventus ha fatto negli ultimi anni. E’ stata abile la Juventus? Sicuramente sì. E’ stato fatto tutto correttamente e alla luce del sole nell’ottenere questo suo successo? Per tutte le ragioni in cui si è parlato in altri articoli, e che specialmente ai torinesi sono note, forse no. O perlomeno qualcuno, in Federcalcio o Lega Calcio, avrebbe dovuto verificare le modalità di questa irresistibile scalata. Una scalata che ha avuto come premessa, al fine di raggiungere uno strapotere finanziario come prodromo necessario per un successo sportivo e di marchio planetario, l’annientamento di qualsiasi tentativo di concorrenza. Rientra in questo annientamento anche l’impedire, da parte della famiglia Agnelli, di un imprenditore ambizioso di risultati sportivi a guida del Torino FC? Questo, con certezza, non lo si saprà mai. Ma quando tutto diventa un business, come insegna la storia di Heinz, sarebbe da superficiali derubricare possibili manovre scorrette ad ipotesi di complotto.
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Ma proviamo ora a prendere in esame anche l’altro scenario, e cioè che non sono gli Agnelli ad impedire qualcosa nel mondo Toro, ma piuttosto il non paventato volere, da parte di Urbano Cairo, di cercare un acquirente per la società granata più voglioso e creso. Si è detto come secondo alcuni il Toro sia un buon business, e come quindi avrebbe mercato (tradotto: un possibile acquirente). Ma è proprio così? Personalmente, come i lettori sanno, sono convinto del grande valore della storia del Torino, e sono altresì convinto come i granata siano una delle poche società calcistiche italiane conosciute nel mondo. Ma questa conoscenza, a causa di gestioni dissennate a partire dalla metà degli anni 90, si sta costantemente sbiadendo. In Italia i tifosi di quella che è la squadra simbolo dell’Italia migliore, quella della rinascita del dopoguerra, stanno diminuendo. Non c’è più narrazione credibile attorno al Toro, e se non c’è narrazione non c’è nascita di un desiderio. Lo si nota oggi, tristemente, anche con il Milan. La narrazione, nel calcio, è una pianta che va irrorata continuamente. Non è un problema di vittorie, ma di contenuti. E’ di questo che la pianta/narrazione del calcio va irrorata. È tutta colpa di Cairo? È tutta colpa del potere degli Agnelli? Diciamo che forse esiste un concorso di colpa, di un modus operandi colpevole di una distruzione progressiva della vitalità e della storia antropologica del calcio italiano. Urbano Cairo, a mio modesto parere, ha due sole strade da imboccare da imprenditore, se è solo il business ad interessarlo. O rivaluta la storia e i contenuti del Toro (quindi aumentando il valore della società per renderla visibile e vendibile al miglior offerente), o decide che il Toro è un buon business da tenersi e abbisogna di migliorie nella struttura societaria e nei risultati sportivi. Non sarà la Juventus ad impedirglielo, perché in tutta evidenza, penalizzando scorrettamente tutto il movimento calcistico italiano, essa ha raggiunto il suo obiettivo di essere diventata una “primus inter pares” del calcio mondiale. La società bianconera è il Ketchup di Heinz ormai dominante su tutti i banconi della catena calcistica del mondo. Cairo, a mio avviso, se vuole ha campo libero per tutte le ambizioni sportive desiderate per un modello di business vincente. Non condanni, il patron del Corriere della Sera, il Torino Calcio all’indifferenza. Sopravvivere, non è vivere. Sopravvivere non è sport. Sopravvivere, per il Toro, vorrebbe dire rivivere un’altra Superga. Nella vita le persone hanno due sole possibilità, come ricorda Vladimir S. Solovyov: “l’uomo non potrà mai essere uguale ad un animale: o si eleva e diventa migliore, o sprofonda in basso e diventa molto peggiore”. E’ determinare un valore, quel che conta. Forse è questo che Urbano Cairo ha dimenticato nelle vicende del Torino FC. Si trovi un rimedio, prima che sia troppo tardi.
(ha collaborato Carmelo Pennisi)
Anthony Weatherhill, originario di Manchester e nipote dello storico coach Matt Busby, si occupa da tempo di politica sportiva. E’ il vero ideatore della Tessera del Tifoso, poi arrivata in Italia sulla base di tutt’altri presupposti e intendimenti.
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