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Si crede nei miracoli e nelle svolte impossibili, ecco perché un bel giorno Andrea Belotti sbarca nella sponda granata di Torino. È un talento, ma ancora grezzo e con alcune incertezze tecniche da far affiorare dubbi legittimi. “Chissà perché hanno preso lui invece di Defrel”, si erano chiesti in molti. La faccia era, ed è, quella del bravo ragazzo capitato per caso nel mondo dorato del pallone. L’inizio non è facile, e mentre già qualcuno mugugna che sì, forse veramente bisognava prendere Defrel, ecco il talento grezzo elevarsi nei meandri della storia granata. Comincia a segnare e a incidere in modo decisivo nel gioco della squadra, e da oggetto di rimpianto di Defrel diventa uomo mercato. Lo stipendio lievita, e la madre può smettere di lavorare alla “stiratura” di un’azienda di camicie. Sembrano tutti felici intorno ad Andrea, anche se i tifosi del Toro cominciano a diventare inquieti: un giocatore così forte di certo non rimarrà in granata. Giuste sono le legittime ambizioni di un ragazzo, a fronte di un Torino non certo potenza economica e dal progetto sportivo non proprio tra i più chiari. Invece il ragazzo di Calcinate rimane in granata, rinunciando a più soldi e a progetti sportivi più ambiziosi. Scelta controtendenza, perché nel calcio contemporaneo se un giocatore vuole andarsene, alla fine se ne va. Basta affidarsi ad un procuratore abile e senza molti scrupoli, e il gioco è fatto. Ma quando si è figli di quella classe operaia lombarda laboriosa e dalle radici cristiane profonde perdute fino a quel ramo del Lago di Como di manzoniana memoria, essere dei bravi ragazzi non è la debolezza dei fessi disorientati davanti al cliché digitale e apolide del mondo contemporaneo, ma una necessaria condizione dell’anima. Facile essere un Graziano Pellè qualunque, e andare a raccogliere in quattro anni di Cina 50 milioni di euro netti in un calcio dimenticato dagli stessi dei del calcio. Perché uno strano “chip” ha convinto tutti come la necessità sia comprare e consumare il più possibile, a qualsiasi costo. Fare la cosa giusta pare non essere più un orizzonte perseguibile, a meno di non essere dei fessi. Belotti è il calcio antico ostinato a resistere alla compagnia di giro dei Mino Raiola di turno, l’antico che si fa contemporaneo come Gigi Riva fece al Cagliari. E poco gli deve importare, all’attaccante del Toro, se negli ultimi tre ha guadagnato almeno trenta milioni di euro meno di Pellè, pur avendo avuto possibilità oggettive di ridurre questo divario economico. Ci sono state, in tutta evidenza, ragioni diverse da quelle economiche a trattenerlo in una realtà sportiva nemmeno lontanamente paragonabile alla Roma del munifico Franco Sensi, che convinse Francesco Totti a rifiutare il Real Madrid, ma in cambio di un importante stipendio e di una squadra vincente per lo scudetto. C’è qualcosa di etico e di “paradiso” dei sentimenti, sicuramente derivata da un’educazione ricevuta così robusta da non poter essere intaccata da nessuna somma di denaro.
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E allora, per la gioia dei tifosi del Toro, quella cresta del “Gallo” continua a correre, in piena gioia, sotto la “Curva Maratona”. “Nel calcio di oggi ci sono pochissimi giocatori che riescono a far venire la pelle d’oca quando li guardi giocare. Belotti è uno di questi”, ebbe a dire Hernan Crespo, indimenticata punta argentina, in uno dei suoi tanti racconti di calcio, rintracciando nel “Gallo” la poetica dell’inafferrabile, del mistero divenuto improvvisamente realtà. Il viso di Belotti mi ricorda la mia infanzia a Manchester, con la mia italianissima madre a raccontarmi di teorie di volti di persone lasciate nella sua amata terra, volti che mi divertiva ricostruire nella mia immaginazione, e ogni tanto ritrovati nelle foto in bianco e nero gelosamente custodite da mia madre in un cassetto di un mobile da salotto di una casa da dove si poteva vedere l’Old Trafford: il Teatro dei Sogni. Non sarebbe male se Urbano Cairo, sull’esempio di Andrea Arrica del Cagliari di Riva, prendesse in considerazione l’idea di provare a costruire una squadra forte attorno al suo giocatore più rappresentativo, giusto per vedere se al potere dei soldi si possa ancora contrapporre il potere di un’idea. Ma sì, Urbano, ti sarà capitata una giornata dove, immersi nel lavoro o nello studio, si ascolta un ciclo di canzoni giungere da una radio posta lontano all’interno di una finestra aperta. Canzoni che si susseguono senza lasciare traccia fino a quella che ci fa distogliere per un attimo dai nostri impegni, a ricordarci come la bellezza superi di almeno una spanna i nostri affanni quotidiani. Quella canzone è Andrea Belotti. E che questa canzone si possa ancora ascoltare e persino cantare, è davvero la notizia del giorno. Perché ogni tanto, come ci ricorda la storia della piccola Tafida, è bene non sperare ad una terra lieve, ma è bene pensare a come sia bella la luce del sole. E benedetto sia il canto del Gallo.
(ha collaborato Carmelo Pennisi)
Anthony Weatherhill, originario di Manchester e nipote dello storico coach Matt Busby, si occupa da tempo di politica sportiva. E’ il vero ideatore della Tessera del Tifoso, poi arrivata in Italia sulla base di tutt’altri presupposti e intendimenti.
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