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Lungo sarebbe il racconto di quanto facilitato sia stato il percorso della costruzione dello “Juventus Stadium”. Torino e Juventus condividono la stessa città, ma mai come oggi i club sono lontani anni luce, e non solo perché appartengono a prospettive sportive diverse. Il Toro naviga in un anonimato difficile da spiegare e da raccontare, costretto alla stessa stregua di una provinciale da un presidente che pare essere capitato per caso dalle sue parti, così talmente strabico verso la sua aurea e il suo prestigio da risultare impalpabile persino nella settimana del derby. Non ci sono tracce di sue dichiarazioni, nemmeno di maniera, nell’avvicinamento della partita più importante dell’anno per i tifosi Granata. Incapace come pochi di creare un patrimonio nel club, distante sideralmente dalle emozioni della sua leggendaria storia, non si capisce nemmeno perché ancora continui con la sua presenza nelle partite e cosa ci vada a fare a Superga ogni 4 maggio. Urbano Cairo nei vent’anni del suo stare al Toro, non ha fatto altro che cospargere oblio sul mito e rammarichi davvero dolorosi per chiunque ami un club di calcio. L’unica consolazione è essersi tenuto distante dalle gabole finanziarie fittizie così ottemperate da alcuni grandi club. Il mito del Toro è a rischio di “damnatio memoriae”, ma almeno i suoi tifosi possono guardare a testa alta gli juventini e rammentargli come dalle parti del “Filadelfia” si possa ancora respirare aria pura calcistica.
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Chiunque abbia gli occhi per vedere e le orecchie per sentire, e non fa nulla davanti al degrado, è colpevole quasi quanto chi lo compie. “La vergogna è una rivoluzione”, scrive Karl Marx, ed è per questo che si può capire il granitico status quo del potere difeso dal club della famiglia Agnelli, incapace di contenere la sua disinvoltura nel provare a raggiungere ogni tipo di obiettivo. Nella città svuotata dalla Fiat divenuta Stellantis sempre a causa di quella disinvoltura di cui sopra, stavolta verso la responsabilità sociale dovuta alla storia e alla tradizione, la Juventus appare sempre più un corpo estraneo, un pulviscolo di universo privilegiato alla ricerca di nuova collocazione. Andrea Agnelli ha pensato come nell’aderire al progetto di una “SuperLeague” europea, si potesse trovare nuova linfa per proseguire nella disperata ricerca di vittorie ad ogni costo. Quale era(e forse ancora è) l’illusione? Credere che con nuovi introiti si possa essere migliori, che ci si possa liberare dalla parte peggiore di sé. Ma è una menzogna davvero fin troppo facile da raccontare a se stessi, considerato come non siano mai stai i soldi a regalare decenza e virtù. E’ la storia dei bianconeri a parlare, una vicenda colpevole sin dalla nascita a causa di un diritto da “ius prime noctis” sul calcio italiano. La permalosità dei bianconeri quando gli si ricorda ciò, è semplicemente la cecità di chi è abituato a farla sempre franca. Hanno scelto, gli juventini, di tifare la protervia e l’abuso di potere e vorrebbero anche che non glielo si facesse presente. Chi veste la maglia del Toro, nel giorno del derby, dovrebbe sempre tener presente una cosa: si sceglie cosa non si deve dimenticare. Il Toro, con la sua stessa esistenza seppur a volte molto precaria, sa bene come non dimenticare la Juve sia la sua mission principale. Cosa posso dire della suscettibilità dei tifosi bianconeri? Ricorro a Rhett Butler di “Via col Vento”: “francamente me ne infischio”.
Scrittore, sceneggiatore e regista. Tifosissimo granata e già coautore con il compianto Anthony Weatherill della rubrica “Loquor” su Toro News che in suo onore e ricordo continua a curare. Annovera, tra le sue numerose opere e sceneggiature, quella del film “Ora e per sempre”, in memoria del Grande Torino.
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