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La maglia ha perso il ruolo di mediatrice tra l’olimpo degli attori principali del calcio e il popolo, che si è reso conto di essere stato scippato di qualcosa che forse non riavrà più indietro. E allora ecco nascere la rabbia che, attenzione, come diceva Wilehm Reich è un’emozione secondaria rispetto alla frustrazione, stato emotivo provocato sempre dal dolore. Il dolore provato verso il giocatore, di cui tutti sono ormai consapevoli essere strumento interessato di procuratori messi come torre di guardia da un sistema dal compito prioritario di macinare utili, ha dato il via a un clima di rabbia repressa, a lambire pericolosamente uno stadio di odio latente. Ecco, quindi, il calcio, un tempo amato perché avvertito come strumento di coesione sociale e di memoria, tanto da sentirlo quasi come un fratello invisibile con il potere taumaturgico di poter lenire qualsiasi nostro dolore, diventare un nemico su cui riversare ogni tipo di tensione provocata da una società ciclicamente molto violenta e devastante. È Caino che non riesce più a riconoscere Abele come suo fratello, perché c’è il tarlo di non essere più riconosciuti come meritiamo. Il tifoso sente venire meno quella fratellanza, anche con i giocatori, un tempo alla base di quell'amore di cui il calcio si sempre nutrito. E allora il riferimento di Rakitic, sorpreso di non leggere sui giornali nulla sulla passione della gente, invece di generare condivisione, provoca solo rabbia e battute sarcastiche. Nemmeno per un secondo la gente pensa come il giocatore del Barcellona possa essere in buona fede, perché ormai la frattura tra Caino e Abele si è consumata irrimediabilmente. Ognuno sta andando per la propria strada, e la sensazione di un tifoso ormai pronto ad uccidere metaforicamente un giocatore, nell'alveo del proprio mondo ideale, è sempre più chiara.
Siamo di fronte ad un cambiamento emotivo epocale verso il calcio. Nessuno, nel 1946, si sarebbe mai sognato di detestare i giocatori del Grande Torino, solo perché si erano messi in testa di giocare e gioire delle loro vittorie, in un’Italia devastata dalla guerra e in un’Europa dove erano morte sessanta milioni di persone in soli sei anni. Anzi, quel Toro era stato salutato come messaggio di speranza. Ed era vero. Chi ama il calcio, prova una rabbia istintiva verso i calciatori multimilionari odierni, perché non li sente più parte di un vero, e quindi li sente altro da sé. Come se questi fossero stati definitivamente cacciati da una Camelot emotiva sempre aspirata, emettendo un irrimediabile certificato di morte. Questo lutto ha lasciato un vuoto incolmabile e disperante. Un giorno ci si è svegliati, e si è scoperto che il calcio della maglia si era dileguato, sostituito dal marchio di uno sponsor. Ed ecco, quindi, come nel momento del dolore attualmente in corso in Italia, diventa davvero inaccettabile qualsiasi cosa il sistema calcio voglia dire o fare. Ormai esso è vissuto, dai tifosi, come un estraneo troppo opulento e grasso, per poter tentare di dire qualcosa di sensato e intimo. Non è più il fratello carissimo del dopoguerra italiano.
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È rimasto solo Maxi Lopez a illudersi che “se in Italia succede quello successo in Francia (stop definitivo ai campionati) scoppia una guerra mondiale”. Il giocatore argentino non ha capito il momento, è evidente. Non ha compreso, unitamente a molti attori principali del calcio, come la distanza tra tifosi e calcio attuale si sia divaricata a tal punto, da assumere i contorni di una strada senza uscita da dove non è più possibile un ritorno. Non sto dicendo, ovviamente, che il calcio sia finito. Presto riprenderà le sue attività, come tutte le cose del mondo. Solo non è più autentico, e sarebbe meglio come i suoi protagonisti rimangano nelle loro torri d’avorio e la smettano di provare ad esercitare un ruolo che, in tutta evidenza, non hanno più. Se il calcio vuole recuperare le sue origini, e quindi la sua identità, deve battere altre strade. Forse la scuola può essere la realtà giusta da cui ripartire per far tornare lo spirito di fratellanza tra questo fantastico gioco e la gente. Forse la FIGC dovrebbe parlare con la politica, per vedere se ci sono le possibilità di organizzare dei tornei scolastici nelle scuole, fra gli ultimi baluardi dei valori comunitari. Bisogna riscoprire la filosofia e l’esistenzialismo, alla base di ogni attività umana di successo. “Il rimedio è uno solo, aprire gli occhi e rendersi conto che chiudendoli tutto resta, siamo solo noi che ce ne andiamo”, ha scritto Marcello Veneziani, ed è come un invito a non arrendersi alla voglia di resa. Se ancora la qualità della vita supera, ai nostri occhi, la quantità, allora non possiamo dimenticare come il calcio ha bisogno di tutti noi, ancora una volta. Occuparsi di esso, è come occuparsi del nostro giardino privato. Abbiamo il dovere di vivere e di riappropriarci di ciò che è nostro, e se qualcuno ritiene come in un momento in cui si piangono migliaia di morti ciò sia inopportuno, allora la situazione è più grave di come la sto osservando. Trecento spartani si predisposero a morire alle Termopili, perché alle leggi della loro città sentivano di dover obbedire. C’è ancora una legge al di fuori di noi alla quale sentiamo di dover obbedire? La qualità, e non la quantità, passa attraverso la risposta a questa domanda. Proviamoci.
(ha collaborato Carmelo Pennisi)
Anthony Weatherhill, originario di Manchester e nipote dello storico coach Matt Busby, si occupa da tempo di politica sportiva. E’ il vero ideatore della Tessera del Tifoso, poi arrivata in Italia sulla base di tutt’altri presupposti e intendimenti.
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