
Questo è il calcio, e quando una persona diventa un giocatore non dovrebbe mai dimenticare che sta entrando in un processo collettivo in cui lui è la luce più abbagliante. Nel momento in cui indossa una maglia, fosse anche quella bianco e azzurra del Paynee FC, deve sempre tener presente il ruolo ricoperto. Egli, il calciatore, è di certo un uomo libero, ma quella maglia che indossa è foriera sì di privilegi e onori ma anche di doveri ai quali costantemente attenersi. La sua libertà deve necessariamente contenersi davanti a quei doveri. Il mondo social(Facebook, Instagram, ecc…) ha dato la stura a equivoci sul significato “che con i miei soldi e il mio privato, nei limiti stabiliti dalla legge posso fare quel voglio”. Ai social, per il loro carattere intrinseco, non importa nulla della reale natura delle cose e gli importa ancora meno del loro valore; l’unica cosa per loro importante è esporle queste cose, ed esporle nel criterio individualista più sfrenato. Da Maradona in poi, spesso è capitato di sentire calciatori affermare di non voler essere modello per gli adolescenti che, adoranti, li osservano. Molti calciatori insistono sul fatto come l’unico modello educativo per i giovani debbano essere i genitori, e come loro non possano essere responsabili per le azioni dei loro tifosi. In pratica, affermano con decisione, rifiutano il loro ruolo di presunti simboli educatori. Il motivo di questo processo di de responsabilizzazione è di un cinico da rasentare l’imbarazzo, e rappresenta la fase finale del lungo processo di una società ormai più tesa ai diritti che ai doveri. Dimenticano, i calciatori, di godere di enormi mezzi finanziari grazie al fatto di essere dei modelli positivi e di felicità per le persone. Ed è triste rilevare questa smemoratezza per una mera questione di comodo. Qualcuno sosteneva, e non a torto, che diritti e doveri si riferiscono gli uni agl’altri, in un punto d’incontro rappresentato dalla legge morale naturale, che prescrive doveri e riconosce i diritti legati alla natura stessa dell’uomo. In quella foto pubblicata su Instagram dai coniugi Icardi, non c’è solo una volgare ostentazione di opulenza, ma anche un involontario manifesto del nichilismo in cui è caduto tutto il comune sentire del mondo occidentale. Un comune sentire che vieta alla legge morale naturale di entrare nelle nostre sfere private, che permettono ad altri di chiedere qualcosa solo sotto forma di scambio: io appartengo solo a me stesso, io sono mio e non instauro rapporti con altri se non contrattualmente. In parole povere siamo in una competizione fra soggetti separati intenti a promuovere noi stessi, e abbiamo posto il diritto sopra l’obbligazione. Ecco perché a Wanda Nara non solo è apparso naturale esporre la ricchezza smodata del suo compagno su Instagram, non solo lo ha fatto con parole di commento consigliabili a rimanere nel privato circoscritto degli affetti, ma gli è apparsa anche una conseguenza logica del suo status. Maradona e i suoi epigoni(e fa sorridere quando l’ex campione argentino prova a vestire i panni del guerrigliero rivoluzionario) sono stati e continuano ad essere docile e potente strumento di un cambiamento strutturale del nostro modo di concepire l’orizzonte esistenziale delle nostre vite. Spesso si dimentica quanto potenti siano lo sport e il cinema, quando influiscano subliminalmente sull’evolvere dei nostri comportamenti e giudizi relativi.
Che lo dimentichino giovani uomini improvvisamente diventati milionari e celebri è quasi comprensibile; meno comprensibile è una società di calcio che, in nome di sacrosanti doveri imposti dal ruolo ricoperto, avrebbe dovuto ricordare a Mauro Icardi come sicuramente i suoi lauti guadagni siano legittimi, ma anche come essi non siano sinonimo del “tutto si può”. Stia attento, il campione argentino, a non ritrovarsi in un giorno qualunque della sua vita a riconoscersi in una descrizione letteraria di Phelam Grenville Wodehouse: “avevo l’aspetto di uno che ha bevuto la coppa della vita e ha trovato uno scarafaggio morto in fondo”.
(ha collaborato Carmelo Pennisi)
Anthony Weatherhill, originario di Manchester e nipote dello storico coach Matt Busby, si occupa da tempo di politica sportiva. E’ il vero ideatore della Tessera del Tifoso, poi arrivata in Italia sulla base di tutt’altri presupposti e intendimenti.
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