“Ora noi, o risorgiamo come squadra,


Loquor
Ogni maledetta domenica
o cederemo un centimetro alla volta”
da “Ogni Maledetta Domenica”
“Cap Rooney eletto per due volte miglior giocatore della Lega, quarterback trentottenne e uomo di punta del coach Tony D’Amato ora è a terra, e non si muove”; nel più iconico film sul football americano mai fatto, ovvero “Ogni Maledetta Domenica”, a quel punto il regista Oliver Stone fa partire uno spot pubblicitario, pazzescamente stridente con il giocatore appena lasciato a terra completamente stravolto dal dolore. E in quel momento capisci che razza di gioco spudorato sia il football americano, landa di disperazione e di gloria, rappresentazione dello scontro fisico che fa retrocedere persino il rugby a una partita amatoriale tra scapoli e ammogliati. Non c’è niente di più americano di questo sport, dove nei secondi che precedono lo “Snap” paura e speranza si mescolano affastellando il primordiale e il futuro passando attraverso una storia senza storia.
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“Nella sopraffazione noi confidiamo”, potrebbe essere il motto “Made in Usa”, laddove la sopraffazione deve essere intesa come frutto della volontà di non cedere nessun centimetro a chi vuole portartelo via. “E io so che se potrò avere un’esistenza appagante- dice Coach D’Amato/Al Pacino-, sarà perché sono disposto ancora a battermi e a morire per quel centimetro”, ed in America ogni giorno molti sogni si infrangono su questo teorema esistenziale, che si pone l’obiettivo ma non i perché e i per come. Siamo in quel luogo del mondo dove i “Padri Pellegrini” sbarcarono dalla “Mayflower” nel nuovo mondo, e stabilirono che nella costruzione esistenziale di questo sarebbe stato inutile porsi se ci fosse o non ci fosse la redenzione, poiché questa non è nella disponibilità degli sforzi umani. E poi, basta vedere la sequenza iniziale di “Ogni Maledetta Domenica”, per capire come in questo sport non ci sia il tempo per pensare o per rivolgersi a qualche Dio per ottenere conferme o ammonimenti. Non c’è colpa e non c’è redenzione, si rotola indietro fino alle caverne senza graffiti, quando ancora l’uomo non si era posto il problema di raccontare e di comunicare i suoi sentimenti. Dopo lo “Snap” tutto si confonde nel caos, nello scricchiolare di ossa che si scontrano, nella ricerca di appropriarsi di quei centimetri necessari per arrivare fino alla “End Zone” e far così toccare la palla ovale sul manto erboso: “Touchdown”, è tutto finisce e ricomincia.
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L’America non si ferma mai, ha l’ansia di conquistare tutto quel che c’è ancora di conquistare. Non c’è un motivo e non c’è un senso, queste cose le si cercheranno dopo l’ennesimo “Touchdown”. E’ violento, è tribale, è possessivo, è quasi senza speranza, eppure gli americani amano alla follia il Football, perché sono convinti della necessità di mandare ogni volta il mondo in frantumi; il loro capitalismo feroce richiede l’Araba Fenice per perpetuare la corsa ad accaparrarsi le terre del selvaggio west o per vivere la “Febbre dell’Oro” sulle del fiume “Klondike”. Si distrugge, si rinasce, si distrugge, si rinasce, e non c’è storia in tale processo solo ansia si appropriarsi di centimetri per vincere. Perché il contrario di vincere e perdere, e non c’è niente di peggio che possa capitare nella Nazione fondata dai “Padri Pellegrini” e dai “Fratelli Massoni”. Walter Camp sul finire dell’ottocento e l’inizio del novecento, forgiò definitivamente il Football Americano, rendendolo perfetto per gli americani. Camp era stato affiliato alla “Skull & Bones”, la più famosa società segreta dell’Università di Yale, dove da sempre si formano larghe fette della futura classe dirigente a “Stelle e Strisce”, e intuisce che al gioco manca il tocco finale per staccarlo definitivamente dal rugby e renderlo così veramente americano: il permesso di passare la palla in avanti. E’ il 1912 quando struttura definitivamente il regolamento del gioco, che stabilisce come non si possa accettare la logica del rugby che prevede passaggi esclusivamente all’indietro, per consentire a tutta la squadra di salire verso la meta.
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E’ roba socialista, da assistenzialismo cattolico, da sinagoga ebraica, il rugby intestardito a trasmettere valori pur se attraverso un gioco molto ruvido. L’Europa è storia passata, l’America guarda in avanti e se frega della storia. E si ritorna ai centimetri da conquistare: contano solo questi. Nel “Super Bowl” che si giocherà nella notte italiana tra domenica e lunedì, secondo la rivista “Forbes” si troveranno di fronte due squadre dal valore di quasi undici miliardi di dollari, e ciò da l’idea del peso che il football ha nella vita degli americani. “Philadelphia Eagles” e “Kansas City Chiefs” sono due realtà completamente diverse tra loro, gli “Eagles” hanno, come empatia, una tradizione che ricorda l’attaccamento europeo ai propri club dei tifosi di calcio. Durante le cicliche crisi terribili dell’industria dell’acciaio, la squadra di football è stata sovente l’unico genere di conforto in una città dilaniata dalla povertà improvvisa nella sua “working class”. Gli “Eagles” conquistano centimetri, e la città spera e si compiace anche nel niente del momento. La città più grande della “Pennsylvania” è il posto dove sono state redatte la Costituzione e la “Dichiarazione d’Indipendenza”, e non è un caso come il celebre film “Rocky”, che narra la vicenda di un perdente a cui viene inaspettatamente viene data una chance per diventare un vincente, sia stato ambientato proprio nel cuore della visione dell’America. Conquistare centimetri e poter vincere anche partendo dal niente, è la promessa insita nella visione americana della vita. Ammettiamolo: non c’è niente di più seducente.
Kansas City si è sempre presa meno seriamente di Philadelphia, è una città amante del consumo degli alcolici(infatti fu quella che più se ne frego della “legge sul proibizionismo” degli anni venti) ed è attraversata da una miriade di “Street Art”. A leggere e a sentire i racconti su questa città del Missouri, pare che da quelle parti se la godano molto e non saprei dire quanto contino i centimetri. Ma intento al “Caesars Superdome” di New Orleans ci sarà e se la giocherà, guidata dal suo “Quarterback” Patrick Mahomes, il campione “semplice” che di “Super Bowl” ne ha già vinti tre. I momenti a precedere lo “Snap” sono il crocevia esistenziale di ogni “Quarteback”, deve essere un po’ come quando il nascituro sta per percorrere il trauma del parto: affrontare la vita senza la pace del cordone ombelicale, in trauma e sofferenza. Ci vuole valore e coraggio per prendere la palla ovale in mano e cominciare a guardarsi intorno alla ricerca di un destino, scacciando il cattivo pensiero del dolore che sta per arrivare.
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Il “Quarteback” ha fiducia nei suoi compagni e sa che faranno di tutto per tenere il più possibile sulla “Linea di Scrimmage” gli avversari; nella “Frontiera Americana” è così che si va avanti, nella assoluta fiducia nei compagni che condividono con lui lì obiettivo della “End Zone”, dove, come detto, tutto finisce e inizia di nuovo. Non è il “Processo Dialettico” di Hegel, è furore. Una partita di football è rappresentazione dell’umanità ai primordi, è il momento in cui si può distruggere in cinque minuti una reputazione costruita in vent’anni. Qualcuno ha detto come in questo sport non esistano vincitori, ma solo sopravvissuti. L’America davanti ad uno specchio adibito a riflettere l’inconfessabile, il più delle volte è proprio così che si sente: sopravvissuta al viaggio pericoloso della “Mayflower e pronta a tornare a combattere per sopravvivere di nuovo. Non saprei dire se apprezzare o meno tale atteggiamento esistenziale, ma sarà ancora una volta affascinante mettersi ad origliare l’America nella notte tra lunedì e martedì, quando il “Super Bowl” affiderà ancora una volta al coraggio e alla determinazione il significato ultimo di una Nazione.
Di Carmelo Pennisi
Scrittore, sceneggiatore e regista. Tifosissimo granata e già coautore con il compianto Anthony Weatherill della rubrica “Loquor” su Toro News che in suo onore e ricordo continua a curare. Annovera, tra le sue numerose opere e sceneggiature, quella del film “Ora e per sempre”, in memoria del Grande Torino.
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