Sono giorni che mi scervello per scrivere qualcosa di quanto meno sensato per omaggiare il più grande cantore della nostra storia. Ma mi accorgo di non sapere nemmeno da dove partire. Approcciarmi alla figura di GPO ha fatto emergere soltanto insicurezze. Ma io, in fondo, che ne posso sapere? Sono un ’99, uno sbarbato che si pone un obiettivo troppo grosso. Io non l’ho vissuto: mi è arrivato soltanto per luce riflessa. Che presunzione. Mi faccio del male da solo, probabilmente. Mi sembra evidente che mi voglia rovinare il Natale, pensando, tra una portata e l’altra, quale sarebbe il modo più giusto, le parole più corrette per non scadere nella banalità, parlando del maestro, unico e inimitabile. Volendo potrei fermarmi qui e potrei portarla a casa. Un overthinking che non produce nulla, che nessuno mi ha chiesto di fare.

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Un anno senza GPO. E noi dove stiamo andando?
Da vero bastian contrario granata, probabilmente sono un nostalgico che fantastica sul tempo che fu, pensando che ci fosse più senso di quello iperconnesso di oggi, in cui non faccio altro che distrarmi in continuazione da una retta via che la vita insegna non esista. Dovrei accontentarmi degli articoli sul fantacalcio, su chi schierare questa giornata. Quest’anno ho deciso di non aggiungere ulteriore sofferenza al mio già conflittuale rapporto con il Toro. Da granata ho sempre pensato che il calcio avesse una valenza sociologica, che il campo contasse fino a un certo punto. Forse si è trattato di un rifugio, di un modo per scappare dalla nostra manifesta inferiorità sportiva rispetto agli strisciati che mi hanno circondato per tutta la mia giovane vita. Del calcio di Dazn, di Luca Marelli, non nego di esserne già un po’ annoiato, pur rispettandone la professionalità. Non so, io ho sempre prediletto l’idea di calcio come senso di appartenenza, ritrovo tra gente sconosciuta e spesso senza argomenti che, in nome di Eupalla, si confrontava anche con accanimento verso qualcosa di inutile e superfluo. Senza uno scopo preciso, senza l’ossessione dell’efficienza.
Mi ricorderò per sempre la prima volta che sono entrato al Delle Alpi. Mi facevano paura i tamburi della Maratona. Non dimenticherò mai l’estate del 2006, dell’invasione di campo dopo aver battuto il Mantova e quanto accaduto in Germania. Come non ci si poteva innamorare del calcio, ad appena sette anni, dopo aver vissuto tutto questo? Poi, l’anno seguente, frequentai tanto mio nonno. E da lì fui rapito da ogni racconto di quei cento anni della nostra storia. Che emozione quando arrivai in Maratona, quel 3 dicembre 2006, quando fu trasmesso il video sugli schermi dello stadio che ripercorreva una storia di cui ero onnivoro. Non lo cancellerò mai. Ero convinto che il mondo girasse attorno a quella storia straripante di profondità e sensibilità.
Come può non venirti la pelle d’oca quando ti raccontano del Grande Torino, di Gigi Meroni e di tante altre tradizioni orali? Come puoi pensare che il calcio sia solo calcio? Come può non interessare cosa si nasconde dietro quelle maglie sudate e dietro una tifoseria? Fin da subito il calcio mi è sembrato più una missione, qualcosa di serio, dal valore intellettuale, più che una masturbazione sulle skills di Cristiano Ronaldo o di Ronaldinho, i nostri miti d’infanzia. È alle medie che ho capito invece come girava il mondo. Quando ti accorgi che sei fondamentalmente solo. Che quei sentimenti viscerali si confrontano invece con ciò che davvero conta in questo mondo proiettato al consumo, alla forza, al potere, alla coolness e giusto un po’ meno al mito, a dei valori che si confondono con l’epica.
Un mondo più disorientato, che è violento in maniera più gentile, magari facendoti diventare dipendente da applicazioni tutte colorate affinché tu possa sentirti sempre insoddisfatto, bisognoso di dopamina. La frustrazione di non riuscire a far comprendere a chi avevo attorno perché fossimo anche noi grandi, ma davvero grandi. In un sistema di valori che non si basava soltanto sull’essere più muscolosi, ma sull’essere attratti dalle cadute.
Non ho mai accettato questa cosa che, nonostante Torino parli in diversi luoghi di noi, da Superga al Filadelfia, ci faccia sentire i reietti, i “bovini”, trattando in maniera meschina tutto ciò che rappresentiamo. Sì, ho rosicato tanto del fatto che a Torino la stragrande maggioranza dei miei amici sia juventina — che ci può stare — o milanista, che già comprendo di meno. Anche io ero innamorato di giocatori feticcio come Pato: comprai anche la maglia, talmente mi faceva impazzire. Ma ho sempre pensato fosse più importante avere una mia Mecca nella città in cui vivo. È un privilegio per me alzare lo sguardo e vedere Superga e sapere cosa rappresenti per la mia città e per il nostro popolo. E va oltre quegli, spesso noiosi, novanta minuti. Ma non sono cieco: so che cosa è successo. Credo sia la tendenza mondiale che più ci accomuna. È il mondo di Instagram, di TikTok, del mordi e fuggi e quindi freddo, dei numeri e delle apparenze. Di fatto, un mondo in cui il Toro, per come mi è stato insegnato da bambino, non può più starci. È vetusto e poco remunerativo, dunque poco instagrammabile o “linkedinabile”. E io stesso sono vittima e complice di questo schema, perché non so più che parole trovare per difendermi e difenderci, se non dire frasi fatte tipo “al cuore non si comanda”. E mi spiace restringere il tutto a questa semplificazione, quando dentro ci sarebbe un mondo, e ridurlo a una chiacchiera da bar, anche se in fondo è tale.
Come quanto mi è successo sabato sera, quando, in uno di quei bar asettici che ti fanno pensare al riciclaggio di denaro, mi sono rincontrato con un amico che non vedevo da tempo. È juventino e ora che la Juve è un po’ più in difficoltà (e comunque non riusciamo lo stesso a batterli) racconta di essere maturato e, di conseguenza, poco interessato, come se avere una passione forte fosse qualcosa di infantile. Anche se sono convinto che il giorno del ritorno allo scudetto sarà il primo a scalmanarsi sotto il pullman scoperto. Ma, a parte questo, lui per schernirmi scherzosamente mi ha detto: “Ma ancora che tifi Toro?”. Io già di mio non ho la risposta pronta. Quante volte mi rigiro nel letto dopo aver trovato la geniale obiezione della mia vita, ma a otto ore di distanza. Di fronte alla sua provocazione non sapevo cosa dire.
I miei concetti, i miei valori, sono chiari in testa. Ma quando vengono espressi ad alta voce mi sembra che perdano forza. Sembrano novecenteschi, fuori dall’ordinario, fuori da Padre ricco, padre povero o altre scemenze — ma fondate (anche se non voglio ammetterlo) — da guru del mindset. Ma mi chiedo: per quale motivo rimango senza parole? Potrei dire che la Juve ruba, ma mi è sempre sembrata una roba da primate. C’entra la banter era perenne che flagella il nostro Toro? La crisi della narrazione teorizzata da Byung-Chul Han?
Credo soprattutto ci sia anche un problema intestino. Una difficoltà nell’identificare dei tratti annebbiati da tanto fumo e poco arrosto. Si è perso probabilmente il concetto di popolo. Anche noi stiamo diventando una tifoseria individualista, da social. Per questo è anche difficile raccontarsi per quello che siamo attualmente. Anche noi siamo in lotta, ci siamo polarizzati come accade, per esempio, in politica. Non sappiamo più dialogare, anche perché non sembra interessare a molti. L’odio, lo sputare sentenze senza mai proporre un’alternativa costruttiva, è all’ordine del giorno: dai social all’Ucraina, fino al Medio Oriente. Perciò è anche difficile prendere una posizione netta all’unisono, far sentire il malcontento per un’apatia che ci condanna da ormai troppo tempo, ma soprattutto per la perdita di ciò che ci contraddistingueva da qualunque altra società d’Italia. Il termometro è la contestazione verso la società: oscillante e mai davvero ficcante.
Alle iniziative, come quella di lasciare la Curva Maratona vuota contro il Pisa in Coppa Italia, c’è chi è sordo e, di fatto, rende vano anche quella briciola di impegno nel tornare quello che non siamo più. E così rimaniamo nudi anche di fronte a ciò che prima era motivo di orgoglio, perché iniziamo a non essere più così tanto diversi da qualunque squadra di metà classifica. Forse non siamo più il Toro. Ed ecco che le parole diventano vuote, scarne di significato. La resistenza, probabilmente, è molto più dignitosa in silenzio.
Non potrò mai scordare il viaggio che ho fatto in navetta verso Superga l’ultimo 4 maggio, dopo la marcia per la città, insieme ad altri miei compagni di tifo. Mi spiace, ma ho trovato ridicolo sentire intonare “Co-come mai, co-come mai, la Champions League tu non la vinci mai”, perché noi della Juventus dovremmo — scusate il francesismo — sbattercene le palle. Dovremmo prima essere meno nemici di noi stessi, prima di trovarne altrove. Ma è un’esternazione che probabilmente mi appiccicherà l’etichetta del gobbo.
E quindi cosa ci rimane? Per scrivere di Ormezzano ho fatto ricerche, letto meravigliosi articoli che vanno oltre il mero aspetto sportivo, come soltanto la sua penna sapeva cogliere ritratti umani sensazionali. Ma, umilmente, mi chiedo: quanto hanno a che fare con la nostra attualità di ereditari della tradizione granata? Mi piacerebbe vivere soltanto un briciolo di quello che ha vissuto, da eterno ragazzo, per scrivere, come fece lui nel ’99, a quarant’anni dalla tragedia di Superga: “Mi va bene questo Toro incerto e trepido, povero e modesto, che di quello di allora è eguale nei sentimenti che attira, di amore e calore. Chi ha tifato per il Grande Torino, anzi chi per esso ha tifato frequentandolo intensamente, troverebbe troppo piccola al confronto qualsiasi grande squadra di adesso. E si appoggi al Toro dei nostri giorni come un giovane cipresso al palo. Sapendo che forse non crescerà mai, però sapendo anche che il palo è bene conficcato nella storia e che il cipresso resterà sempre giovane”. Forse sottovalutiamo la mancanza: senza GPO, senza il nostro insostituibile vate, che ci ricordava la nostra essenza, chi siamo, da dove veniamo e, soprattutto, dove stiamo andando?
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