Assistiamo all’aumento del divario tra le squadre medie e quelle grandi. Assistiamo alle prevaricazioni, sotto gli occhi degli organi federali, di continue scorrettezze e utilizzo della forza ai limiti del lecito. Esemplari sono i casi di Diawara e Maksimovic, che non presentandosi agli allenamenti forzano Bologna e Torino a cederli al Napoli a pochi giorni dalla chiusura del mercato. Difficile non pensare ad un Napoli complice di questa manovra, ma la cosa sconcertante è l’arrendevolezza con cui Bologna e Torino hanno accettato questa storia. Ed ancora più sconcertante il silenzio di una Federazione che assiste silente ad un’operazione chiaramente dai contorni illegali, rispetto a delle regole di mercato che la FGIC stessa ha stabilito. Se si prova a ricordare la vicenda, qualcuno alza la mano per dire che ciò è libero mercato, ed il Napoli è stato bravo ad assicurarsi le prestazioni di due giocatori a lungo inseguiti. Inutile perdersi in nostalgia del passato o in vaghe idee socialiste, continuerebbe questo qualcuno che ha alzato la mano, questo è il libero mercato a cui bisogna adattarsi. “Bisogna prendere esempio dalla Premier League!”(nell’immaginario collettivo terra del libero mercato perfetto. Terra soprattutto di regole ferree e tendenzialmente rispettate, aggiungo io), concluderebbe questo qualcuno, invitando il presidente della sua squadra del cuore a fare operazioni tipo Diawara/Maksimovic. E’ un chiaro invito a mostrare la forza, a qualunque costo e qualunque sia il risultato, perché la cosa più importante è vincere. Se ogni cosa diventa lecita in nome della libera circolazione delle merci(in questo caso i giocatori) e del profitto che se ne ricava(in questo caso soldi e ipotetiche vittorie), diventa difficile poi andare a parlare di valori della maglia, di bellezza del gioco, di come era bello quando esistevano i giocatori/simbolo. A non capire più, oltre ai bambini allibiti davanti agl’adulti che raccontano le vicende di chi giocava dieci anni con la stessa squadra, sono gli stessi giocatori.
Questi ragazzi vengono paracadutati da varie parti del mondo, in realtà a loro completamente sconosciute. Le società che li accolgono ormai sono riconoscibili solo in quanto datori di lavoro, più che continuatori ideali di una storia all’interno delle vicende di uno dei più bei giochi(il calcio) che mai siano stati inventati. Quando negli anni 30 un nuovo giocatore si presentava nello spogliatoio dell’Austria Vienna del grandissimo Matthias Sindelar, sapeva di essere nello spogliatoio della squadra nata nel quartiere operaio di Vienna. Anche allora i soldi erano importanti(è quasi banale ricordarlo: i soldi sono sempre stati importanti) e anche allora i giocatori guadagnavano somme relativamente importanti, ponendoli decisamente più in alto rispetto a qualsiasi parametro di stipendio medio. Ma c’era tutto un sistema, a partire dagl’uomini che occupavano pro tempore le istituzioni sportive, che ricordava a tutti come il gioco, i valori dello sport e il rispetto delle regole fossero in assoluto la cosa più importante. Il cinismo di maniera di oggi, fatto circolare furbescamente da chi nel caos trova soddisfazione di interessi molteplici, riterrebbe questo un retorico guardarsi indietro, un inopinato atteggiamento nostalgico di chi non ama i cambiamenti. E’ desolante vedere come molti tifosi, sempre di più, stiano abbracciando questo giudizio in nome della modernità. Tradizione e modernità non sono le parti di un ossimoro, ma sono due sentimenti necessari a creare storia e valori condivisi. Chiedere alla propria squadra del cuore di esercitare una “forza” a prescindere non fa parte della storia che ha reso grande il calcio, non fa parte della storia di tutte le cose buone del mondo. Nel Paese del libero mercato per eccellenza e del massimo valore dato a chi arriva primo, gli Stati Uniti, è stato proprio lo sport a giungere alla conclusione che ai più forti bisognava porre un tetto, oltre il quale non potevano andare. Lo sport americano si è dotato di regole e strumenti, che permettono ai più deboli di poter avere una speranza di poter ritornare a competere con i più forti. Questo perché, come hanno ben compreso gli americani, il fine dello sport è il competere. Le istituzioni sportive quel che devono difendere ad ogni costo è la competizione, non il libero mercato. Questo anche se alla tua porta dovesse bussare la sirena di un fondo sovrano o di uno sceicco invaghito della vecchia Europa.
“Esiste solo un capo supremo: il cliente. Il cliente può licenziare tutti nell’azienda, dal presidente in giù, semplicemente spendendo i soldi da un’altra parte”. Questa considerazione di Sam Walton, fondatore di Walmart, leader mondiale delle catene di supermercati, definisce bene perché richiamarsi al libero mercato, quando si parla di calcio, non è solo una questione eticamente sbagliata: è una bestialità.
I tifosi italiani sono ancora stupiti dall’eliminazione della loro nazionale da Russia 2018, dalla povertà tecnica dei giocatori messi in campo da Ventura. Ma se la forza dei soldi, e non delle regole, continuerà a decidere di far debuttare in Serie A giovani di tutti i Paesi, tranne che italiani, allora forse non sarà solo Russia 2018 il campionato mondiale al quale l’Italia non parteciperà. Come in un finale di storia, questo sì triste e nostalgico, di un tango argentino.
Ha collaborato Carmelo Pennisi
Anthony Weatherhill, originario di Manchester e nipote dello storico coach Matt Busby, si occupa da tempo di politica sportiva. E’ il vero ideatore della Tessera del Tifoso, poi arrivata in Italia sulla base di tutt’altri presupposti e intendimenti.
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