Poi ci sono quelli che fanno gli scatti inutili, per avere l’applauso del pubblico. Mai fatti io. Non sono il tipo, non sono paraculo. Non vuol dire che quel calciatore non sia un bravo professionista, semplicemente è uno che cerca a tutti i costi di dimostrare che lui in campo dà il 150%. Io se vedevo che una palla era destinata a uscire non mi buttavo in scivolata per fare spettacolo. Serve anche quello, però, l’ho imparato. Per tre anni ho girato il mondo insieme ai giornalisti e ho conosciuto un punto di vista diverso. Il punto di vista di persone competenti e appassionate, ma che certe volte si fanno influenzare dai gesti eclatanti. Ho capito che quegli scatti disperati a qualcosa servono: ad alzare il voto in pagella. In Francia i voti ai giocatori sono molto più bassi e, soprattutto, i giudizi sono argomentati e tengono in considerazione tutti i 90 minuti. Se per tutta la partita non tocchi la palla e poi fai due gol, in Italia prendi un 8. In Francia no. La valutazione è meno emotiva, qui invece è spinta all’eccesso. O forse siete semplicemente più generosi…
A proposito di correre, al Toro si correva parecchio. Fu Sandro Mazzola a volermi prima all’Inter e poi a portarmi a Torino e chi meglio di lui poteva spiegarmi cosa significasse giocare per questi due grandi club? Persona fantastica, Sandro, gli sono molto grato. Lo spirito Toro non è solo retorica. Ve lo dice uno che la prima partita che giocò con la maglia granata fu il derby del 3-3. Arrivato da nemmeno una settimana, esordio contro la Juve, catapultato dentro il dramma di un primo tempo finito 3-0. Ma in quella squadra c’erano tanto giocatori a cui non serviva ricordare di correre e un grande, grandissimo mister. Lo spirito Toro, l’importanza della sua storia, i grandi campioni, le perdite tremende: ho capito tutto da solo in quei secondi 45 minuti. È stato incredibile perché percepivo che qualsiasi sarebbe stato il risultato finale, la gente era lì con noi, era pronta a sostenerci.
Quando giocavo, di quello che scrivevano i giornalisti mi fregava poco. Certi miei compagni usavano le critiche come stimolo, io volevo solo aiutare la squadra e migliorare me stesso. L’opinione che mi interessava era il rombo dello stadio pieno, quello era il mio stimolo. Sono cresciuto nelle giovanili dell’Olympique Marsiglia, per cui per me era il massimo entrare al Vélodrome davanti a 60.000 persone con la prima squadra e lottare per portare a casa tutti i titoli possibili. La tifoseria dell’OM è non calda, di più. La pressione mi è sempre piaciuta, mi ha aiutato in carriera. Per motivare un giocatore non esiste un metodo giusto. Con qualcuno devi usare le maniere brusche, a certi serve solo una carezza, altri hanno bisogno di uno zuccherino. O magari una minaccia del tipo ‘non giochi per sei mesi’. Con me i rimedi pesanti non sono mai serviti, non ne avevo bisogno. Probabilmente i giocatori “di quantità” non hanno di questi problemi…
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