Sono arrivato in Italia a 13 anni con i miei genitori, trasferitisi per lavoro. Giocavo a calcio già in Romania, così mio padre è riuscito a combinare un incontro con Comi, allora responsabile del settore giovanile del Toro. Mi hanno invitato a uno stage a Dronero, il giorno dopo Comi mi ha comunicato che avrei fatto parte del vivaio granata. Le cose non furono così immediate, in realtà, perché ero ancora tesserato con una società romena e non avevo i documenti a posto. Il mio primo presidente, dunque, fu Cimminelli, ma ero piccolo, non ci siamo mai parlati, non ricordo nemmeno che tono di voce avesse. Per me il presidente del Toro è Cairo, con cui ho instaurato e conservo un ottimo rapporto e che si è sempre preoccupato per me, per farmi curare nel migliore dei modi dopo gli infortuni. Ha riportato il Toro a lottare per le coppe ed è uno che di calcio ne capisce. Tutte le volte che ci ha parlato negli spogliatoi ha sempre trasmesso molta carica.
Ho vissuto il meglio e il peggio del Toro. Ero in campo come raccattapalle la sera di Torino-Mantova, ma ho vissuto anche il fallimento. Tanti ragazzi andarono all’Inter o alla Juve, io avevo tante possibilità, ma sono rimasto perché non ho mai sognato di vestire la maglia del Real Madrid o del Barcellona. La mia squadra preferita al mondo era il Torino, gli Invincibili erano i più forti di tutti, per cui il mio unico sogno era quello di indossare la maglia che fu loro. Comi fu molto onesto con noi in quel periodo e per un mesetto fu dura perché mancava tutto, poi, pian piano, iniziò la ricostruzione del vivaio.
Dalle giovanili sono uscito uomo perché quella maglia pesa, ti responsabilizza fin da piccolo. L’avete mai indossata? Metterla da giocatore è una sensazione unica e chiunque abbia questa possibilità non se la scorda più. Ho esordito a 19 anni in un Roma-Torino e, dopo tutta la gavetta, avevo in testa soltanto di rimanere in granata per molti anni. Soltanto altre due volte ho potuto partire in ritiro con la squadra a inizio stagione, ma gli infortuni sono sempre arrivati nell’esatto momento in cui iniziavo a carburare. Una sfortuna quasi scientifica. Non mi voglio lamentare, ho sempre cercato di vivere le cose in maniera positiva, fosse una convalescenza di 9-10 mesi o l’ennesima cessione in prestito. Ho dovuto fare in modo che ogni stazione della mia vita diventasse un’opportunità, affrontando le cose con il sorriso, non da incazzato.
Nell’estate del 2016 ho capito che dovevo staccarmi dal Toro una volta per tutte. Dopo essere passato per Legnano, Gubbio, Juve Stabia, Crotone, Lecce e Cremonese, mi sono ritrovato a 26 anni senza nessuna società di B che puntasse su di me. Le uniche offerte che avevo erano in Lega Pro, per cui ho capito che non era più realistico pensare di rimanere col Torino in Serie A. Dovevo ripartire da una società con un progetto importante e delle ambizioni: è arrivato il Pordenone, club serio con un centro sportivo all’avanguardia che permette di lavorare bene, aspetto importante per uno come me che deve curare molto il fisico. Mi sono messo in mostra e ho attirato l’attenzione del Venezia. Perché è vero che il mio sogno è di giocare nel Toro, però ci sono anche altre strade per arrivare dove uno sogna. Il calcio per me è divertimento e non posso aspettare ancora. Adesso sono parte di una squadra dove posso fare bene e con un progetto a lungo termine. Questo è un treno che non voglio perdere.
Inzaghi è uno che farà strada come allenatore, perché ha una fame incredibile. Un altro molto sottovalutato, ma tatticamente preparatissimo è Bruno Tedino. E poi, anche se non piacerà a molti, Giampiero Ventura. È un professore, ti insegna davvero a giocare a pallone. Mi dispiace per la Nazionale, ma lui tatticamente è straordinario.
Il mio bilancio di tredici anni al Toro è in positivo. Sono contento anche degli infortuni, perché, alla fine, sono ancora qui a giocare, sono giovanissimo (appena 27 anni) e se uno ci crede sul serio, nella vita può arrivare ovunque. Al Toro ho passato gli anni più belli della mia vita e ho legato con tanti ragazzi splendidi. I fratelli Gomis sono diventati una famiglia, al di là del calcio, ma come faccio a non parlare di Rolly. Per quelli come me che arrivavano dalla Primavera, lui era un modello, l’esempio da seguire: sempre a tirare il gruppo, aveva una parola buona per tutti, il giusto mix tra qualità tecniche e umane.
E anche se non l’ho mai pubblicizzato sui giornali, penso si sia capito che non mi vergogno affatto a dirlo: io tifo Toro.
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