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Occorre sempre ripartire dalla gente quando si parla di calcio, occorre riscoprire il bisogno delle persone comuni di ritrovarsi in qualcosa, dell’ansia di andare oltre il semplice consumare la vita, altrimenti tutto finisce presto per diventare una monotona coazione a ripetersi di date e celebrazioni(compleanno, onomastico, natale, festa della liberazione, primo maggio, ecc…). Sono 74 anni che la gente va al “Filadelfia” nella speranza di trovare traccia di qualcosa che non può più tornare, ma che inspiegabilmente continua ad essere presente. Ho visto il “Fila” ferito, ridotto a dei monconi sporgenti, pieno di sterpaglie e del ricordo del campo di gioco che li aveva visti disegnare perimetri di sogni. Ho visto il “Fila” come è adesso, e ho continuato a cercarli nonostante niente ricordi ciò che era. E ogni volta capiterò da quelle parti, lo so, continuerò a cercarli: non posso e non voglio stancarmi di farlo. Salirò ancora una volta a “Superga”, e mi chiederò, come mi sono ogni volta chiesto, in quale anfratto della sua anima Vittorio Pozzo abbia trovato il coraggio e la forza di errare tra lo scempio, chiamato per l’improbo compito di riconoscere i corpi di quelli che erano stati i suoi ragazzi. Un Maresciallo dei carabinieri, riconoscendo il leggendario Commissario Tecnico di due vittorie mondiali, si mise sugli attenti e gli fece, pieno di costernazione e ammirazione, il saluto militare sussurrandogli: “nessuno meglio di lei”. “Usi obbedir tacendo e tacendo morir”, è il motto dei carabinieri, che da sempre e in silenzio accompagnano le tragedie italiane per testimoniare che lo Stato c’è e ci sarà, anche laddove nessuno ritiene ci sia.
Pozzo fieramente eretto, come De Gasperi quel giorno di Parigi, nell’apogeo del Golgota della sua esistenza compì fino in fondo il suo dovere. L’Italia sbanda paurosamente ancora una volta, e in ogni angolo del Paese tutti piangono o rimangono attoniti. Una anziana signora una volta mi disse: “sembrava che non ci saremmo ripresi mai più. Non era possibile che Dio si fosse preso anche loro”. Con gli “Invincibili” probabilmente gli “Azzurri” avrebbero conquistato il terzo mondiale consecutivo, e forse era troppo da chiedere “alla personale cortesia” del destino. C’è un momento,e lo vorrei dire soprattutto a coloro che si ostinano scelleratamente a fare in pieno 2023 ancora il saluto romano, in cui qualcosa ci spinge verso il fondo più profondo. Giunge il giorno in cui abbiamo il dovere almeno di provare a capire e a chiedere perdono, senza condizioni o inutili dettagli a sostegno. Il “Grande Torino” era stata una splendida carezza, un incredibile segno che questo Paese non solo ce la poteva fare, ma aveva il diritto di tentare. L’ho capito in un giorno di particolare calura catanese. Mio nonno, di fede interista, aveva appena finito di versare una bustina di idrolitina in una bottiglia di vetro piena d’acqua, al solito soffermandosi un attimo incantato dalle miriadi di bollicine prodotte. Poi mi aveva preso e messo seduto sul grande tavolo del salone della sua casa e, con gli occhi illuminati di orgoglio, cominciò: “Bacigalupo, Ballarin, Maroso…”. Era l’inizio di un grande racconto, e a distanza di cinquant’anni sto ancora qui a crederci.
Scrittore, sceneggiatore e regista. Tifosissimo granata e già coautore con il compianto Anthony Weatherill della rubrica “Loquor” su Toro News che in suo onore e ricordo continua a curare. Annovera, tra le sue numerose opere e sceneggiature, quella del film “Ora e per sempre”, in memoria del Grande Torino.
Attraverso le sue rubriche, grazie al lavoro di qualificati opinionisti, Toro News offre ai propri lettori spunti di riflessione ed approfondimenti di carattere indipendente sul Torino e non solo.
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