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La “juventinizzazione” di stampo bonipertiano imposta al nostro calcio, ha svuotato di contenuti questo sport, relegandolo esclusivamente al concetto di vittoria(“vincere è l’unica cosa che conta”); portare un club calcistico e il suo logo ad essere un brand da monetizzare in modo vorace è stato un passo davvero molto breve. Si è quindi giunti a voler vendere un prodotto senza che avesse una storia, un carattere, un suo perché. Possiamo dire come questa sia la vittoria dei procuratori, ovvero spersonalizzare tutto affinché conti solo il denaro e l’immagine del giocatore. E’ incredibile quanto il nostro sport nazionale abbia perso contatto con i giovani, quanto li trascuri, quanto non sia più un caleidoscopio di sentimenti a cui aspirare, quanto abbia eliminato il libero arbitrio per uniformarci alla stessa stregua di automi dal pensiero unidirezionale. Non importa quello che stai guardando, ma quello che riesci a vedere”, qualcuno ha scritto pensando chissà a cosa, ma che ricorda proprio cosa era il calcio un tempo: ognuno allo stadio poteva farsi il “suo film”, la propria valigia di ricordi. Con il calcio uno metteva nella sua personale fotografia tutte le immagini che aveva visto, i libri che aveva letto, la musica che aveva sentito, e le persone che aveva amato; non c’era nessun risultato o post di un social a poter cambiare lo stato delle cose. C’era ovviamente una certa ferocia nelle contrapposizioni(come dimenticare alcuni partite epiche nell’Irlanda del Nord della eterna lotta tra “Lealisti” e cattolici), ma il calcio era capace di non distruggere mai il lato umano. I presidenti dei club si lamentano sempre quanto sia diventato difficile sostenere finanziariamente tutto, e sono costantemente alla ricerca di nuovi ricavi, di nuovi tornei dove racimolare soldi, visti alla stessa stregua di bombole d’ossigeno per chi è costantemente alla ricerca di aria per respirare.
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Eppure la città è lì che aspetta, possibile sia così ignorata da uno sport che ad essa deve tutto? Aver sottratto la comunità dalla sua vita, è stato l’errore tragico del business del calcio. Il Psg, che pure molto ha contribuito a distorcerne e a pervertirne ogni suo sentimento originario, sta cercando di capire e di ricostruirsi in un altro modo. Sta posizionandosi a prescindere dai soldi e dalle vittorie, che pure continua ad avere in abbondanza, per immaginarsi in un futuro dove il business diventa sostenibile perché tornato ad essere sorretto dalla trasversalità del suo tifo. Forse ciò sta avvenendo anche perché nelle banlieu vive la gran parte degli immigrati parigini di fede islamica, sospesi tra l’arcaico e il multiculturalismo del “mondo urban”. Essendo tifoso del Toro non dimentico mai nemmeno per un istante quanto il calcio debba essere speranza, incontro, passione, fratellanza, solidarietà. Conservo gelosamente alcune lettere e messaggi inviatemi negli anni dai fratelli e sorelle in tifo, e ogni tanto me le rileggo, specie nei momenti di tristezza. Sono un balsamo per l’anima perché vuol dire che la città esiste ancora, e resiste. Riscoprendola sarà l’occasione per il business di capire come non occorra andare poi così lontano per fare affari. Do un consiglio ad Urbano Cairo, anche se so bene che non lo seguirà: compri lo “Stadio Olimpico Grande Torino” e faccia diventare il “Filadelfia” il centro di ogni ricordo e sentimento Granata. Se lo fa, a quel punto potrebbe avere delle sorprese piacevoli interessanti sui ricavi del bilancio del club. Bisogna danzare con i nostri ricordi, in attesa di un nuovo ricordo che verrà. Aver dimenticato ciò, è stata la causa del declino del calcio italiano e del “rosso” dei suoi bilanci. Intanto la città, magnanima e incline a perdonare, aspetta…
Scrittore, sceneggiatore e regista. Tifosissimo granata e già coautore con il compianto Anthony Weatherill della rubrica “Loquor” su Toro News che in suo onore e ricordo continua a curare. Annovera, tra le sue numerose opere e sceneggiature, quella del film “Ora e per sempre”, in memoria del Grande Torino.
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