Nuovo appuntamento con "Loquor", la rubrica su Toro News di Carmelo Pennisi: “Il gioco più seguito al mondo ha un pregio indiscutibile, è una cosa trasversale e inclusiva come poche altre al mondo”
“Una città non è disegnata,
semplicemente si fa da sola”
Da qualche tempo c’è stata una inversione di tendenza nella gestione del Paris Saint Germain, un cambiamento di paradigma culturale importante. Aver abbracciato la filosofia di Luis Enrique, che va nella direzione opposta dell’esistenzialismo “galacticos” del Real Madrid di Florentino Peres, non sta volendo dire solo far capire come le stelle illuminano sì il pianeta, con quest’ultimo a dare senso ad ogni cosa, persino alla loro lucente maestosità, sta anche imponendo un cambio di passo sul modo antropologico/culturale di vedere il calcio da parte della proprietà qatarina. Parigi non è la cartolina di lusso degli Champs-Elysees, della Place Vendome, del Palace Garnier, di Dior, di Guerlain, oppure di Vuitton e Chanel, ma all’ombra, molto all’ombra, della Torre Eiffel ci sono anche quelle “banlieu”, esempio di resistenza alla gentrificazione e reticolo di proteste permanenti, dove solo il calcio è riuscito a portare almeno una parvenza di quella integrazione e assimilazione che “La Republique” sta cercando da anni di realizzare. Il gioco più seguito al mondo ha un pregio indiscutibile, è una cosa trasversale e inclusiva come poche altre al mondo. Ha un linguaggio che è un esperanto di ogni possibile comunicazione tra realtà diseguali; tutto in questo gioco riporta al senso di comunità. Mentre il pallone rotola sul prato verde, la memoria accantona per un attimo ogni vantaggio e ogni svantaggio. Non c’è rivolta nel pallone, ma momento di gioia e quadro di ricordi condivisi. I blocchi delle banlieu sviluppati in lunghezza dall’architettura omologano nell’emarginazione, formano una serie di anelli che non hanno sbocchi nella Parigi privilegiata, se non nel magico mondo del “Parco dei Principi”, casa del Paris Saint Germain. La squadra parigina sta portando avanti un progetto territoriale, di appartenenza non solo alla sua storia, ma anche alla evoluzione di questa. Aprirsi al mondo dell’hip-hop e del rap(il video “La Foule” di “Franglish” è stato condiviso sui social del Psg), sta volendo dire non solo abbracciare un modello di comunicazione giovanile, ma soprattutto far andare la gestione del club verso tutte le potenzialità presenti nel contesto urbano e suburbano parigino. Il calcio così cessa di essere avulso dal contesto che lo circonda a cui l’aveva costretto la tv, e si riappropria della sua natura originaria di manifesto di una comunità.
Gestire in modo dinamico un club è un segnale importante per un campionato come quello italiano, dove tutto è immobilizzato in un tirare a campare foriero di preoccupanti debiti senza soluzione di continuità. In Italia ci si sta abbruttendo emotivamente di fronte ad un gioco che dovrebbe tirare fuori unicamente momenti memorabili, e non si sta parlando di vittorie ma di pezzi di storia unici ed irripetibili. Mai come nel periodo estivo di mercato, quando il fattore agonistico e notoriamente a riposo, si evidenzia il fallimento di chi ha gestito negli ultimi trent’anni il nostro calcio. Non c’è voglia di ritornare allo stadio per vivere una esperienza, ma tutto si riduce ad uno sfogliare figurine di calciatori che potenzialmente potrebbero portare qualche punto in più alla squadra del cuore. Leggendo i racconti o ascoltando le memorie dei tifosi del passato oppure di quelli oggi più anziani, ci si perde in un piacevole incedere di aneddoti e feuilleton di storie che non parlano di vittorie e sconfitte, ma di uno sport che ha segnato il tempo di innumerevoli generazioni. Si è davanti alla rappresentazione di sentimenti e di una città onnipresente sullo sfondo. Una squadra di calcio per lungo tempo è stato la città, una sorta di sintesi di tutte le sue attese e le sue speranze. E la città, come ricorda Italo Calvino, è tendenzialmente “la risposta che dà ad una tua domanda”, da ciò discende come essa sia la soluzione di ogni tipo di bisogno o di desiderio. E’ stata una cosa incomprensibile, per molti club, lasciarsi irretire dal globo, dal cercare risorse e tifosi in angoli di mondo per vendere un mondo di gadget e diritti video a quel punto dal sapore artificiale, se non addirittura estraniante. I club hanno dimenticato quale enorme risorsa sia il territorio in cui operano, e hanno anche incredibilmente dimenticato quanto lo sport sia anche e soprattutto fenomeno culturale. Se si inseguisse tale visione, i club tornerebbero presto ad essere uno dei centri sociali vitali della città, e a quel punto i risultati sarebbero sì importanti, ma non l’unica cosa importante.
La “juventinizzazione” di stampo bonipertiano imposta al nostro calcio, ha svuotato di contenuti questo sport, relegandolo esclusivamente al concetto di vittoria(“vincere è l’unica cosa che conta”); portare un club calcistico e il suo logo ad essere un brand da monetizzare in modo vorace è stato un passo davvero molto breve. Si è quindi giunti a voler vendere un prodotto senza che avesse una storia, un carattere, un suo perché. Possiamo dire come questa sia la vittoria dei procuratori, ovvero spersonalizzare tutto affinché conti solo il denaro e l’immagine del giocatore. E’ incredibile quanto il nostro sport nazionale abbia perso contatto con i giovani, quanto li trascuri, quanto non sia più un caleidoscopio di sentimenti a cui aspirare, quanto abbia eliminato il libero arbitrio per uniformarci alla stessa stregua di automi dal pensiero unidirezionale. Non importa quello che stai guardando, ma quello che riesci a vedere”, qualcuno ha scritto pensando chissà a cosa, ma che ricorda proprio cosa era il calcio un tempo: ognuno allo stadio poteva farsi il “suo film”, la propria valigia di ricordi. Con il calcio uno metteva nella sua personale fotografia tutte le immagini che aveva visto, i libri che aveva letto, la musica che aveva sentito, e le persone che aveva amato; non c’era nessun risultato o post di un social a poter cambiare lo stato delle cose. C’era ovviamente una certa ferocia nelle contrapposizioni(come dimenticare alcuni partite epiche nell’Irlanda del Nord della eterna lotta tra “Lealisti” e cattolici), ma il calcio era capace di non distruggere mai il lato umano. I presidenti dei club si lamentano sempre quanto sia diventato difficile sostenere finanziariamente tutto, e sono costantemente alla ricerca di nuovi ricavi, di nuovi tornei dove racimolare soldi, visti alla stessa stregua di bombole d’ossigeno per chi è costantemente alla ricerca di aria per respirare.
Eppure la città è lì che aspetta, possibile sia così ignorata da uno sport che ad essa deve tutto? Aver sottratto la comunità dalla sua vita, è stato l’errore tragico del business del calcio. Il Psg, che pure molto ha contribuito a distorcerne e a pervertirne ogni suo sentimento originario, sta cercando di capire e di ricostruirsi in un altro modo. Sta posizionandosi a prescindere dai soldi e dalle vittorie, che pure continua ad avere in abbondanza, per immaginarsi in un futuro dove il business diventa sostenibile perché tornato ad essere sorretto dalla trasversalità del suo tifo. Forse ciò sta avvenendo anche perché nelle banlieu vive la gran parte degli immigrati parigini di fede islamica, sospesi tra l’arcaico e il multiculturalismo del “mondo urban”. Essendo tifoso del Toro non dimentico mai nemmeno per un istante quanto il calcio debba essere speranza, incontro, passione, fratellanza, solidarietà. Conservo gelosamente alcune lettere e messaggi inviatemi negli anni dai fratelli e sorelle in tifo, e ogni tanto me le rileggo, specie nei momenti di tristezza. Sono un balsamo per l’anima perché vuol dire che la città esiste ancora, e resiste. Riscoprendola sarà l’occasione per il business di capire come non occorra andare poi così lontano per fare affari. Do un consiglio ad Urbano Cairo, anche se so bene che non lo seguirà: compri lo “Stadio Olimpico Grande Torino” e faccia diventare il “Filadelfia” il centro di ogni ricordo e sentimento Granata. Se lo fa, a quel punto potrebbe avere delle sorprese piacevoli interessanti sui ricavi del bilancio del club. Bisogna danzare con i nostri ricordi, in attesa di un nuovo ricordo che verrà. Aver dimenticato ciò, è stata la causa del declino del calcio italiano e del “rosso” dei suoi bilanci. Intanto la città, magnanima e incline a perdonare, aspetta…