Questo vuol dire che il volume degli introiti del calcio continentale era arrivato ad una eccedenza di tale portata, da chiedersi quale legittimità etica o meno lo abbia reso tollerabile negli ultimi anni. Ad alcune persone risulta strano, e anche noioso, parlare di etica nello sport, visto come ormai anche in questo contesto, da anni, vige la regola della domanda e dell’offerta, quindi del mercato. E’ curioso come spesso ci si dimentichi l’atipicità dell’industria calcio, come si sia, chissà perché, voluto rimuovere il fatto di uno sport dove la componente affettiva, addirittura sovente trasmessa da generazione in generazione, giochi un ruolo fondamentale nel processo generatore di profitti riferito ad un club calcistico. Nessun tifoso del Toro deve essere convinto a tifare Toro, non c’è pericolo, come con le compagnie telefoniche o elettriche, che all’improvviso un tifoso decida di cambiare “gestore” e spostarsi, per una tariffa o proposta più conveniente, a consumare il suo tempo e i suoi soldi in un altro club. La squadra, per il tifoso, è come un figlio, quindi un amore non negoziabile.
Egli, il tifoso, è disposto, magari anche dopo qualche mugugno, a perdonare qualsiasi cosa alla sua squadra. Ed è in questo “consumo” atipico, perché innervato da fortissimi sentimenti non modificabili, che si sono insinuati meccanismi economici, sconosciuti nella loro reale natura al grande pubblico, con il potere di creare miliardi di euro di fatturato. C’è da chiedersi perché le autorità sportive, e anche (soprattutto) quelle politiche, non abbiano mai fatto niente per usufruire, per il bene pubblico, di una piccola parte di questi utili ottenuti attraverso non un processo produttivo, ma affettivo. Non bisogna mai dimenticare come lo Stato “concede attraverso il diritto” ogni possibilità di commercio, produzione o attività lavorativa nel suo territorio. Questa concessione non può avvenire a prescindere, solo perché un soggetto la richiede e ha la forza per esercitarla. Il diritto degli stati moderni si preoccupa, o dovrebbe preoccuparsi, da sempre come ogni attività umana, giustamente tesa soprattutto a soddisfare un interesse soggettivo, abbia anche un ricasco positivo sugli interessi generali.
Perché un interesse soggettivo non predica mai su isola deserta, ma sempre nel contesto di rapporti sociali “conditio sine qua non” di un eventuale successo di questi interessi soggettivi. In Francia, da molti anni, esiste una legge,per chi vuole distribuire film nelle sale transalpine, che obbliga di stornare una piccola quota del prezzo del biglietto, da destinarsi in un fondo(il Centre National de la Cinematographie) creato per sostenere le pellicole di produzione nazionale. Il problema non è stabilire, in questa sede, se tale legge sia giusta o meno (il discorso sui meccanismi di finanziamento della cultura sarebbero lunghi e complessi, e certamente sarebbero fuori luogo su questa testata), ma solo, a mio parere, di guardare ad un provvedimento legislativo concessore ai produttori di film di fare profitto su un territorio, ma al quale, in cambio di questa possibilità, devono restituire qualcosa per il bene di un settore dalla oggettiva pubblica utilità, ossia la cultura. Il governo francese, con questo provvedimento, ha ristabilito un necessario confine tra il diritto di arricchirsi e il dovere di una comunità di ribadire come qualsiasi arricchimento è possibile perché,appunto, esiste la forza di una comunità e un territorio da essa stessa curato.
Ed è su questo equilibrio di confine che si fonda tutto, equilibrio da tener molto da conto da parte della politica di qualsiasi colore, che dovrebbe essere, paradossalmente, il contropotere di tutti i poteri presenti nell’agone della vita pubblica e sociale. La politica, quando assolve alla sua sana funzione, dovrebbe ricordare ai suoi cittadini come esista il diritto alla salute,come esiste il diritto a procurarsi da vivere. Esiste il diritto al profitto, come esiste il diritto di una comunità di vedersi restituita una minima parte di questo profitto. Esiste il diritto alla paura, come esiste il diritto di avere coraggio. La politica dovrebbe avere sempre la saggezza di provare a fare sintesi, perché noi comuni cittadini raramente ce la facciamo, persi sovente,nel giudicare le cose, solo nel nostro soggettivo punto di vista. Quando il calcio tornerà alla normalità dei suoi profitti, non sarebbe male ci fosse qualcuno a ricordargli come forse sia giunto il momento di sedersi ad un tavolo a pensare come e in che modalità restituire alla comunità un po’ di quel arricchimento operato attraverso un bene comune come il calcio. Lo chiedo specialmente ai politici, a cui spero serva da ammonimento una frase di Andrè Malraux: “non si fa politica con la morale, ma nemmeno senza”.
(ha collaborato Carmelo Pennisi)
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