Da più parti – parti bianche e parti nere – si legge che sarebbe stato un omaggio a monsù Agnelli, che aveva creato la sua Detroit a Torino.
E passi che mr. Ford stimasse così tanto Agnelli da dimenticare che era un concorrente – dubito sperasse di essere ricambiato a sua volta con la produzione di un’utilitaria “Big Detroit” – e che non tenesse in considerazione che a Torino si costruivano macchine lontane un oceano (oceano di forme e misure), dalle Ford.
Passi tutto, ma non il “Gran”.
Perché chiamarla proprio “Gran Torino”?
Torino è qualcosa di più di una città dove si montano le Cinquecento, si mangiano gianduiotti e si ammira dal vivo il logo della Paramount, il Monviso. Qualcosa di più, già, questo a mr. Ford non era sfuggito. È la città dove cresce un mito che non si chiama Grande Juventus (di proprietà della concorrenza Fiat) ma Grande Torino. Appunto. Squadra che solo qualche anno prima guadagna 5 scudetti in 8 campionati, che da sola ha fatto una Nazionale. Che a suo modo, vince la guerra, permettendo a una popolazione umiliata dalla miseria e dalla morte di riscattare la vita e concedersi il lusso di sognare, tifando. Una squadra che va in tournee in giro per il mondo, come le rock star, a mostrare il calcio. Perché il Grande Torino è, il calcio.
Sì, mr.Ford a Torino, si è imbattuto in un mito. E l’ha riconosciuto. Il mito racconta di creature immortali ed onnipotenti che vivono avventure e compiono azioni fantastiche, modificando il mondo con il loro intervento.
E Ford voleva esattamente questo, la sua Gran Torino doveva diventare qualcosa di più di una macchina sportiva, doveva diventare un mito. Questo e non meno di questo, voleva mettere in produzione nelle sue fabbriche, mr Ford.
Di macchine “Gran Torino” nei film ho già detto, ma del film “Gran Torino”, no.
Eastwood, protagonista e regista della pellicola, non ha bisogno che nessuno glielo spieghi come si costruiscono gli eroi e gli antieroi – ha passato cent’anni nel far west, lui! – e la sua storia di sconfitte, nostalgia, razzismo e di riscatto la fa girare tutta intorno alle portiere e al cofano di un’auto. Ma non un’auto qualsiasi, la Gran Torino.
Un’auto che ha avuto il tempo di diventare vintage, relegata nel garage e destinata a uscire solo per essere lustrata. Inutile. Un’auto che il diverso cerca di rubare e che Eastwood difende col fucile. Un’auto che alla fine viene regalata, al diverso. Così tanto simile al vecchio Clint, quel giovane diverso.
Perché il mondo si muove, e se tu rimani fermo, hai già perso.
“Gran Torino” è un titolo suggestivo per un film perché è più del nome di una macchina che racconta un successo di vendite. È una macchina che si fa persona. Evoca qualcosa che c’è stato, e ora non è più. Qualcosa che si tende a rimpiangere fino a quando si scopre di poter ancora fare una cosa semplice ma grandiosa: mettere le mani sul volante, e tornare a guidare. Con tutti i sì, forse, cacchio che strizza, e ma però del caso. Ma comunque, tornare a guidare.
La “Gran Torino” noi del Toro l’abbiamo ereditata. Sarebbe inutile tenerla nel garage di Superga e lustrarla a maggio, Eastwood è stato chiaro a questo proposito.
Al semaforo sappiamo che tutti la guardano. No, non è semplice essere piloti all’altezza del mito e continuare a guidare.
Ma alla fine cosa c’è di meglio che innestare la prima e correre fin là, alla prossima partita? Maglia granata addosso. Lo stesso granata delle maglie che venivano stese ad asciugare al Filadelfia, quelle senza nomi scritti dietro, quelle che ancora si gonfiano del nostro vento.
Ok, forse il “Grande Torino”, la sportiva “Gran Torino” e il film “Gran Torino” sono semplici coincidenze di grande torinesità.
Ma pure quando al supermercato sbatti contro il carrello della persona che ti farà innamorare, è una coincidenza, no?
E se ci sbatti contro una volta, al Gran Torino, ti innamori per sempre. Sicuro.
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