Torna un nuovo episodio di "Lasciarci le penne", la rubrica di Marco Bernardi
Tu chiamale, se vuoi, emozioni, cantava Lucio Battisti e le parole di Mogol si stampavano nella memoria, diventando tormentone prima e modo di dire poi. Una canzone sulle piccole emozioni, quelle che danno senso alla vita, brevi come intuizioni e così intense da rimanere per sempre come cicatrici. C'è stato un momento, anni fa, profondamente granata, un attimo che mi è tornato alla mente in questi giorni nei quali, a Torino, il calcio ha lasciato spazio al tennis e si sono respirate ebbrezze di altri sport e di altri campioni, e trovare lo spunto per un pezzo sul Toro che non trasudasse malinconia o scontento era quasi impossibile. Quel momento di anni fa era emozione pura: durava al massimo tre secondi e ci ha accompagnato fino a quando Paolino Pulici ha vestito la nostra maglia numero undici. Una volta la numerazione era logica e ferrea: dall'uno del portiere al nove del centravanti, ogni ruolo si identificava con il numero che il calciatore portava sulla schiena. L'irruenza dei terzini risiedeva nel due e nel tre, come l'estro si materializzava nel sette e nel dieci. A Torino, finché c'è stato Pupi, l'undici incarnava la furia, la grinta. Lui era il ciclone e l'undici era il ciclone.
Ebbene, quell'emozione lunga non più di tre secondi si materializzava quando lo speaker, dopo aver elencato con rigore teutonico i nostri giocatori dall'uno al dieci, la voce fredda di una voce robotica che annuncia i treni alla stazione, interrompeva l'elenco inserendovi un "...e..." che fermava il vociare e l'esultanza e costruiva un silenzio di ghiaccio che si poteva tagliare col coltello. C'erano tre fatidici secondi di silenzio totale, poi, rompendo l'aplomb fino allora sfoggiato, l'uomo designato a leggere la formazione urlava: "Pulici!" e lo stadio esplodeva in un urlo fragoroso, da esultanza dopo un goal decisivo, da vittoria che si poteva pregustare, sentire a portata di mano, quasi accarezzare. Valeva la pena esserci solo per vivere quell'istante e non ci parve vero quando quell'incanto si spezzò e il giocatore più granata tra i granata se ne andò altrove, dove non doveva e non poteva stare. Perché Pulici era fatto per stare lì, in cima a tutti gli altri, a chiudere la recita della nostra formazione, dopo quell' "...e..." che promette e poi mantiene, come una rara certezza nel mare delle fregature. Difficile da spiegare, quasi impossibile da rendere sulla carta. Perché, se in quel momento non c'eri, a dirla con Battisti, capire tu non puoi. Tu chiamale, se vuoi, emozioni.