toronews columnist Lavagnetta Granata: il solito derby?
Lavagnetta Granata

Lavagnetta Granata: il solito derby?

Riccardo Levi
Come oramai da tradizione il Torino non è stato capace di vincere il derby della mole, ma questo pareggio non è da sottovalutare

Ammetto che alla vigilia del derby, come un po’ tutti oramai, quella sensazione insana di poter vincere questa maledetta partita c’è sempre, ma di anno in anno un pezzettino meno. È un sentimento strano, quasi un’abitudine che si tramanda: sperare di poter ribaltare la storia e, allo stesso tempo, prepararsi al solito finale amaro.

Dopo questa partita, però, la statistica che ha fatto il giro dell’ambiente granata la conosciamo tutti: questo è il primo derby d’andata dell’era Cairo in cui il Torino riesce almeno a non perdere. Un dato agghiacciante, che non lascia spazio a equivoci. Vederlo raccontato come un record battuto ha il sapore del paradosso, ma è anche lo specchio fedele di questi anni. E sì, lo so: c’è sempre chi preferisce guardare solo al lato negativo, chi ormai vive nel ruolo dei “maicuntent”, pronto a trovare il difetto anche quando qualcosa funziona. Ma stavolta, seppur non abbiamo vinto, il bicchiere mezzo pieno esiste, eccome. Perché, pur tra mille limiti, si è visto un Torino con carattere, compatto, capace di soffrire e di non crollare: un qualcosa, che, nei derby, è sempre stato utopico.

Dal campo alla lavagnetta: un pareggio che vale più di quanto sembri

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Soffrire abbiamo sofferto, e tanto. Ma non tutte le sofferenze finiscono in una sconfitta, e questa volta il Toro è riuscito a uscire da una battaglia complicata con qualcosa di concreto tra le mani. Il derby è stato una partita chiusa, bloccata, vissuta sui dettagli e sui duelli, dove la tattica ha avuto più spazio del talento. È finita 0-0, sì, ma è stato uno di quegli zeri che raccontano più di tanti gol, perché da entrambe le parti si è vista voglia, compattezza e soprattutto equilibrio. Le occasioni ci sono state, ma a deciderla sono stati i portieri: due protagonisti assoluti che hanno reso onore al match con parate decisive.

E qui la copertina è tutta per Alberto Paleari, che a trentatré anni ha riscritto la sua storia personale e, in parte, anche quella del nostro Torino. Migliore in campo nel derby, in uno stadio dove spesso abbiamo lasciato più lacrime che punti presi, il suo è stato un pomeriggio da leader. Le sue mani hanno parato più che tiri: hanno respinto l’idea che questo Toro non sapesse più lottare. Paleari rappresenta la dimostrazione che il lavoro paga, che la perseveranza conta più dell’età e che la passione, quando è autentica, può ancora spostare gli equilibri. È la storia di un uomo che si è rimesso in gioco e di un gruppo che, ha trovato in lui un simbolo di fiducia. Davanti a lui, la difesa ha finalmente smesso di sembrare un castello di sabbia. Dopo un inizio di stagione composto da errori e fragilità, il terzetto Ismajli-Maripán-Coco ha offerto una prestazione da manuale, restando corto, lucido e compatto come non si vedeva da tempo. Ismajli ha guidato con autorità, Maripán ha garantito fisicità e presenza, mentre Coco, ha risposto con una prova di maturità sorprendente. Una linea che, per una volta, si è mossa da reparto e non da somma di singoli, dimostrando che, se il Toro difende insieme, può reggere anche contro un avversario di livello superiore. E questo, in un’annata in cui i gol subiti sono diventati una ferita aperta, è già una notizia.


Nel cuore del campo, poi, è arrivato quello che a parer mio è un segnale da non sottovalutare: Anjorin. Entrato in un momento delicato, il finale, il centrocampista inglese ha dato fisicità e personalità. Dopo mesi di problemi fisici e pochissimo minutaggio, ha mostrato un’energia diversa, quella scintilla che può cambiare il volto del centrocampo. Se uniamo tutto al lavoro sporco di Adams e Simeone, sempre generosi e pronti al sacrificio le fondamenta sono solide. E non va dimenticato il rientro di Nkounkou, né, allo stesso tempo, la prova solida di Lazaro, attento e finalmente utile in ambo le fasi - e lo dice uno che non ha mai fatto sconti nel giudicarlo.

È stato un derby giocato più di cervello che di cuore, e forse è proprio questo l’aspetto più ambivalente. Il Torino non si è disunito, non ha perso la testa, e ha saputo leggere i momenti della partita contro una Juventus che, con Spalletti appena arrivato, aveva tutto per cavalcare l’entusiasmo del nuovo ciclo. Di solito, in questi casi, l’avversario ha sempre quella marcia in più, quell’adrenalina che ti spinge a vincere anche solo per dare un segnale. E invece no: il Toro è riuscito a contenerla, a renderla sterile. Non abbiamo vinto, ma abbiamo tolto ritmo, coraggio e spazio a un avversario che, sulla carta, resta superiore. Con questo pareggio Spalletti ha raggiunto quota 1000 punti in Serie A, un traguardo che dice tanto sulla distanza tra le due realtà, ma anche sul valore di quanto ottenuto.

Se riuscissimo a capitalizzare nelle prossime partite, contro avversarie alla nostra portata, potremo dare un senso vero a questo pareggio. La priorità deve essere costruire un’identità chiara, compatta, e anche se sarà diversa da quella più romantica del “cuore Toro” di Vanoli, alla fine contano i risultati, e se Baroni riuscirà a darci continuità, allora questa squadra potrà davvero dire la sua.

Lasciamoli lavorare, questi ragazzi perché, nonostante tutto, stanno dimostrando di essere cresciuti, di avere la voglia di risollevarsi. Un punto contro questa Juventus non è un’occasione persa, è un segnale di ripartenza. Le vere recriminazioni vanno fatte altrove: contro il Pisa, non contro la Juve.