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tor columnist Lavagnetta Granata: la maledetta settimana del derby

Lavagnetta Granata

Lavagnetta Granata: la maledetta settimana del derby

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Un Toro capace di reagire ma non di dominare: da 0-2 a 2-2 contro il Pisa, in una partita che racconta molto più della classifica. La settimana prima del derby è ancora una volta un’altalena tra speranza e rassegnazione.
Riccardo Levi

C’è qualcosa di inspiegabile nel DNA del Torino. Ogni volta che sembra poter spiccare il salto definitivo, qualcosa si rompe. È come se questa squadra, e in fondo anche noi tifosi, vivessimo in un equilibrio costante fra entusiasmo e paura, fra orgoglio e resa. La settimana prima del derby lo dimostra da sempre: è quella in cui il Toro si guarda allo specchio e scopre di non riconoscersi. Il pareggio contro il Pisa, arrivato dopo una rimonta da 0-2 a 2-2, non può essere letto come un punto guadagnato. Perché non è possibile che, ancora una volta, serva finire con le spalle al muro per iniziare a giocare. È una squadra che deve per forza soffrire per reagire, che non riesce a costruire certezze prima di cadere. E questo, a una settimana dal derby, è un film già visto.

Un commento sull’ultima uscita stagionale

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Il Grande Torino si presenta con un prato nuovo e con Baroni che sorprende tutti: fuori Asllani, dentro Ilić. È lui, di fatto, il “regista” mascherato, con l’obiettivo di abbassarsi fra i centrali e dare equilibrio alla costruzione. Una mossa curiosa, più ibrida che logica: a ogni azione un difensore si sgancia, ma senza che si crei un vero vantaggio. È un sistema fluido solo sulla carta, perché in realtà confonde e rallenta. L’avvio è promettente, con due punte vere e Vlasić libero di svariare, ma il Pisa, pur timido, approfitta subito delle nostre solite leggerezze. Difesa che si apre, Maripán perde palloni a destra e a manca, Coco e Ismajli vengono saltati come birilli, e dopo poco siamo già sotto. Il gol subìto non sveglia la squadra: anzi, la ingabbia. Gli spazi si chiudono, il Toro non riesce a muovere palla con criterio. Nessuno che dribbli, nessuno che si muova tra le linee. Tutto statico, troppo leggibile. Col passare dei minuti arriva pure il raddoppio da calcio di rigore: ancora una dormita difensiva che causa il penalty per colpa di un approccio che sa di disattenzione. Lo stadio ammutolisce, Baroni, in un’altra occasione, verrà poi espulso per proteste e la sensazione è quella di un copione già scritto. Poi, però, succede qualcosa. Forse per orgoglio, forse per rabbia, forse per puro istinto granata. Il Toro reagisce, comincia a spingere con più cuore che idee, e nel finale di tempo accorcia e addirittura trova il pareggio prima di entrare negli spogliatoi. Nel secondo tempo però le azioni saranno poche e il toro non da mai segnali di pericolo a dimostrare che la reazione, per quanto encomiabile, non basta: una grande squadra non può permettersi di esistere solo quando è spalle al muro.

Sul piano tattico la partita racconta un Toro ancora in cerca di sé. L’idea di far scendere Ilić come centrale aggiunto, in fase di costruzione, nasce probabilmente dal tentativo di creare superiorità numerica nella prima impostazione, ma il risultato è opposto: ogni volta che un difensore si sgancia, la squadra perde equilibrio e compattezza. Manca una logica precisa dietro i movimenti, e il fraseggio ne risente. La palla gira lenta, senza mai spezzare la pressione avversaria, e il Toro fatica a trovare linee pulite verso gli esterni. A centrocampo Vlasić continua a svariare, ma più per necessità che per libertà: è costretto ad andare a cercarsi palloni che non gli arrivano mai nel mezzo spazio. E davanti, senza un gioco che favorisca i due attaccanti, il Toro finisce col diventare sterile. Non è un problema di allenatore, perché non esiste tattica capace di trasformare per magia ciò che i giocatori non sono. Mancano idee, ma soprattutto interpreti capaci di rompere gli equilibri.

La settimana che pesa più di una stagione

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Ed eccoci, alla settimana più pesante dell’anno. Quella che non si misura in giorni ma in battiti, in pensieri, in notti insonni. Quella in cui ogni tifoso del Toro si sveglia con una sensazione precisa nello stomaco, difficile da spiegare ma impossibile da ignorare: l’attesa del derby. Perché non è una partita come le altre, non lo è mai stata e non lo sarà mai. È un marchio, un rito collettivo che ogni granata vive con la stessa miscela di ansia, orgoglio e follia. È la settimana in cui la città si divide e tutto sembra assumere un peso diverso: il traffico, il lavoro, le conversazioni al bar. È la settimana in cui ogni granata si scopre più vulnerabile e più vivo allo stesso tempo. In cui il cuore batte più forte anche solo passando davanti a uno stemma, a una sciarpa, a una bandiera appesa sul balcone. Non serve guardare la classifica, non serve ragionare. È istinto, puro e viscerale.

Eppure, ogni volta, il Toro ci arriva così: con un punto di domanda sulla testa. Mai sereno, mai lineare. O reduce da una sconfitta, o da un pareggio che brucia. Come se fosse scritto da qualche parte che la settimana del derby debba sempre iniziare con una ferita aperta. Questa volta la ferita si chiama Pisa, un 2-2 che lascia più interrogativi che risposte. Una partita che ti ricorda che puoi anche reagire, ma non sempre puoi guarire.

E allora la domanda torna, puntuale, ogni anno uguale: perché succede sempre così? È come se la mente non reggesse il peso di quella settimana. Il derby, infatti, è la prova più crudele e più bella insieme: può regalarti un’estasi inimmaginabile o farti sprofondare in un silenzio che pesa come una condanna. Ma è anche questo che tiene viva questa fede, che la rinnova. Perché tifare Toro non è logico, non è razionale. È accettare di soffrire sapendo che ne varrà la pena anche solo per un gol, per un urlo, per un istante di orgoglio. Sappiamo che la sorte non ci ha mai sorriso, che la storia ci ha insegnato a cadere più che a vincere. Ma la settimana del derby resta sempre unica. Perché la vivi tutta, la senti sulla pelle, nei pensieri, nella voce di chi tifa con te.

Quando arriverà quel fischio d’inizio, che tu sia allo stadio o davanti alla TV, ti accorgerai che nonostante tutto sei ancora quel ragazzino che non spera in altro. Perché il Toro è questo: un sentimento che non si sceglie, che non si spiega, ma che si porta dentro per sempre. È la follia di chi continua a crederci anche quando non dovrebbe, di chi affronta ogni derby come fosse l’ultimo, sapendo che anche se farà male, non smetterà mai di aspettare il prossimo.

E forse è proprio questo, alla fine, il privilegio, e la condanna, di essere granata.