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C’è sempre dietro un “Grande Vecchio” a cospirare dietro un rigore non dato e un fuorigioco di mezzo avambraccio, e si capisce come sia difficile per un autore di cinema proporre ad una Nazione culturalmente scettica il racconto della celebrazione di una vittoria o di una rinascita attraverso lo sport. Siamo tifosi più che innamorati dello sport, e totalmente alienati dal culto del mito. Dimentichiamo in fretta gli eroi di ieri, e se provassimo a chiedere ai nati del nuovo millennio chi sia Enzo Bearzot, probabilmente non avremmo nessuna risposta. Il cinema nostrano con lo sport non è capace di farsi evento e cultura, non riuscendo, per esempio, a connettersi con il mondo produttivo tedesco per pensare ad una opera audiovisiva su Michael Schumacher che riporta in Italia il titolo mondiali piloti guidando una Ferrari. Sarebbe un fantastico racconto, con scene ad effetto girate sul mare in piena dinamica da regata(penso ad un tocco registico come quello di un Stefano Sollima), quello del “Moro di Venezia” che nell’estate del 1992 vince la “Louis Vuitton Cup”, andando così a contendere l’America’s Cup ad “America” di Bill Koch. L’avventura del “Moro” è il canto del cigno del “corsaro” di Ravenna, siamo alla vigilia di Mario Chiesa e dell’inizio del ciclone di “Mani Pulite”. Appena un anno dopo l’Italia quarta o quinta potenza industriale mondiale non esisterà più, e Gardini concluderà la sua vita suicidandosi in un bel palazzo milanese. Abbiamo tanta di quella storia da ricordare che forse la cosa ci ha fatto venire un pizzico di nausea, e quindi abbiamo cominciato a rimuoverla. Troppo ingombrante, o troppo complicata nel doverne rintracciare elementi unitari. Temo dalle nostre parti si sia preso l’elemento socio/culturale più cinico della postmodernità, ovvero quella forsennata ansia di consumare avvenimenti senza fermarsi un attimo a sentire la necessità di pensare.
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Probabilmente siamo troppo arrabbiati per soffermarci sulla necessità del mito per la nostra educazione sentimentale ed esistenziale, e il cinema segue questa nostra anomia assecondandola. Albert Camus, Premio Nobel per la Letteratura, insegna come il calcio sia periferia che sogna di farsi Impero, l’occasione di una vita grama di luci della ribalta di entrare nel racconto immortale delle pietre senza età, diventando così mitologia di ogni tipo di racconto orale sobrio dall’etilismo sbilenco da bar. In “Underworld”, Don De Lillo in novecento pagine ci racconta la storia americana che da va dagli anni cinquanta alla fine della “Guerra Fredda”, attraverso il passaggio di mano in mano di una palla da baseball. La palla da baseball è il simbolo del desiderio di opporsi alla disgregazione in atto di un Paese, rappresentazione di un passato che non c’è più, di un tempo ormai inafferrabile. Lo scrittore americano riprende le tematiche dello splendido e delicato “Field of Dreams”, dove Kevin Costner rade al suo suolo interi acri di coltivazioni di pannocchie, unico sostentamento economico per lui e la sua famiglia, al fine di costruire un campo da baseball per attendere “lui che tornerà”. “Ho nostalgia dei giorni del disordine”, scrive De Lillo in “Underworld”, e si capisce come quella palla di un “Fuori Campo” di una leggendaria partita tra i “Giants” e i “Dodgers” del 1951, sia stato il mito che gli ha fatto accettare la paura di una guerra nucleare e di un’America drammaticamente incerta scritta e riscritta come su di una lavagna. Ripenso al mio camminare adolescenziale sulla via principale della mia città un tardo pomeriggio di primavera del 1976, e un mio amico che gridando da lontano blocca per sempre una delle linee temporali più significative della mia esistenza: “Carmelo, il Toro ha vinto. Siete Campioni d’Italia”! Ha ragione De Lillo: “…il passato non smette mai di succedere, al momento che passa”. Forse dovrei avere il coraggio di fregarmene dello spirito del tempo italico, e provare a fermare quella linea temporale in una sceneggiatura. Sì, forse un giorno lo farò.
Scrittore, sceneggiatore e regista. Tifosissimo granata e già coautore con il compianto Anthony Weatherill della rubrica “Loquor” su Toro News che in suo onore e ricordo continua a curare. Annovera, tra le sue numerose opere e sceneggiature, quella del film “Ora e per sempre”, in memoria del Grande Torino.
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