Nuovo appuntamento con "Loquor", la rubrica su Toro News di Carmelo Pennisi: "Rimane un azzardo semantico quasi non commentabile quello del nostro attuale Ministro dello Sport..."
“Evita ciò che eccede la misura”
Voglio molto bene ad Andrea Abodi, lo conosco da anni e so quanto sia animato sovente da buoni intenzioni e da buoni sentimenti, ecco perché sono rimasto spiazzato dalla sua dichiarazione ("...la Russia è un Paese aggressore, Israele è stato aggredito, forse questo si dimentica completamente") riguardo l’opportunità o meno di giocare Italia-Israele in programma ad Udine il prossimo 14 ottobre. Inoltre, chi mi conosce sa quanta ammirazione e amore abbia per la cultura ebraica e per la storia di Israele, ammirazione coltivata in anni di studi profondi. Continuando con la premessa, aggiungo che ho diverse perplessità sui rapporti intercorrenti tra Occidente e mondo arabo, ci sono implicazioni e incastri complessi di difficile decodificazione, ci sono dettagli che si possono conoscere solo se si è mai avuto a che fare, per ragioni professionali o di studio, con il mondo arabo. Ma detto ciò, e qualsiasi siano le posizioni di ognuno sull’annosa questione arabo/israeliana, rimane un azzardo semantico quasi non commentabile quello del nostro attuale Ministro dello Sport. Non perché abbia esortato di non mettere in discussione la giocabilità della partita di Udine, ma per essersi spinto a dare una spiegazione politico/fattuale sulla legittimità israeliana di continuare a confrontarsi con lo sport agonistico mondiale. Nella Striscia di Gaza è in corso una catastrofe umanitaria con pochi precedenti nella storia moderna, ci sono migliaia di persone decedute o in fin di vita a causa della denutrizione. Tra loro ci sono molti bambini e adolescenti. Morire per fame o per sete è qualcosa di terribile, in letteratura abbiamo l’esempio della straordinaria e terribile descrizione della vicenda del "Conte Ugolino", fatta da Dante Alighieri nel XXXIII Canto dell’Inferno della "Divina Commedia". Nel teatro italiano c’è il celebre monologo de "La Fame dello Zanni" portato in scena da Dario Fo. L’arte aiuta a comprendere meglio le cose, ma la realtà è ovviamente molto più potente.
Le immagini che quotidianamente giungono da Gaza sono annichilenti, lambiscono gli scenari distruttivi postatomici, e c’è da chiedersi quanto senso abbia ancora lo sport per dei Paesi coinvolti in guerra, e non tanto chi sia l’aggredito o l’aggressore. Quando si giunge ad una guerra tutte le parti in campo sono colpevoli. Ma c’è un insegnamento postulato dall’Antica Grecia in aiuto, e riguarda proprio le Olimpiadi, paragonabili agli avvenimenti sportivi internazionali del nostro tempo. L’avvenimento sportivo tra le "Città Stato" elleniche poteva avvenire solo nella situazione in cui ogni controversia tra le "Città Stato" stesse si inchinasse alle ragioni sacre dell’ekecheiria (la traduzione significa letteralmente "trattenere le mani"), da non confondersi con una dichiarazione di pace ma da catalogare come una sospensione di ogni attività bellica. Essendo lo sport qualcosa in connessione con il divino, per i greci sarebbe stata quasi una bestemmia verso gli "dei" sporcarsi le mani di sangue mentre si inseguiva la gloria di Olimpia. Se non si è in condizione di rispettare il sacro, allora non si può gareggiare nello sport, e conviene attenersi alla speranza di tempi migliori. E qui non si tratta di stabilire il torto o la ragione, ma di avere rispetto per le tanti morti e del senso dello sport. Ci sono altre ragioni per cui i Greci sospendevano le guerre nel corso dei Giochi; una di queste era evitare che le vittorie sportive fossero utilizzate per giustificare le azioni di guerra. Il Kata Metron, il "secondo misura" inseguito da tutta la cultura e la società ellenica, impediva ai legittimi appetiti di divenire occasione di bulimia, foriera di infelicità e distruzione. Si dice che gli atleti non possono essere responsabili delle azioni dei loro governanti, e questo in parte può essere vero, ma solo in parte.
Lo sport è anche atmosfera esistenziale, specie quando gareggiano le nazionali, ed è difficile capire quale sarà lo stato d’animo dei giocatori israeliani che scenderanno in campo contro gli Azzurri ad ottobre. Ed è ancora più difficile immaginare con quale spirito gli italiani assisteranno allo stadio alle gesta della partita. Forse è questo che Abodi non sta capendo, non sta tenendo in giusta considerazione lo stato emotivo dell’opinione pubblica italiana, oggettivamente scioccata su quanto in questo momento sta accadendo a Gaza. È quasi impossibile creare una empatia sportiva con chi in questo momento si rifiuta di consentire ad un intero popolo di sfamarsi. Siamo esseri umani, travolti e coinvolti dalle notizie, come possiamo accettare una cosa del genere? Non esiste una ragione accettabile per questo, nessun orizzonte fatto di umanità può accettarlo. Ogni volta che lo sport si arrende al "the show must go on", perde la sua ragion d’essere, proprio perché esso è un potente mezzo di proiezione collettiva dove si rileggono e si incanalano pulsioni e passioni. Lo sport è la trama dei nostri sogni e delle nostre debolezze, è una mano tesa per stringerne un’altra, non è uno spettacolo da fare andare avanti ad ogni costo. E quando non si può proprio evitare che lo spettacolo continui, allora bisognerebbe stare attenti all’utilizzo delle parole, cercando di individuare esercizi semantici di pace e di inclusione. Oppure è preferibile scegliere la strada del silenzio. Tra l’altro, visto il già detto particolare clima emotivo, non sono da escludere delle gradinate quasi vuote all’appuntamento di ottobre. A quel punto saremmo davanti ad una sconfitta epocale dello sport, e con una incredibile protesta da segnalare con il circolino rosso sui libri di storia. Questo si sta rischiando.
È di pochi giorni fa la clamorosa rivolta dei tifosi del Fortuna Dusseldorf, contro l’ingaggio dell’attaccante israeliano Shon Weissman, protagonista di messaggi sui social tipo "Cancellare Gaza dalla mappa" e "sganciare 200 tonnellate di bombe sulla Striscia". L’affare era concluso e il giocatore aveva superato le visite mediche: tutto era pronto per la firma del contratto. Poi è arrivata improvvisamente la nota del club: "abbiamo studiato il profilo del giocatore, ma alla fine abbiamo deciso di non prenderlo". Nella replica di Weissman, un goffo tentativo di scuse, emerge il problema in tutte le sue contraddizioni: "pur accettando tutte le critiche, mi spiace che non sia stato preso in considerazione il contesto generale… alla fine dei conti, una persona sarà sempre al fianco del proprio Paese. Indipendentemente da tutto". Ho sempre trovato poco comprensibile, e assai poco etico, l’ostinazione dei Paesi belligeranti di continuare a voler partecipare a manifestazioni sportive. Lo sport se non ha il potere di "trattenere le mani", allora non è più sport. L’11 giugno del 1993 Serbia e Croazia, in piena guerra civile, "fermano le mani" per un giorno per onorare i funerali di Drazen Petrovic, il più forte cestista mai venuto al mondo nei Balcani, per anni simbolo di una nazione intera. Lo sport deve avere questa forza etico/morale di ricordare l’esistenza di limiti insuperabili, persino alla ferocia. "Ritengo che la ricostruzione dei rapporti e delle prospettive debba partire dal riconoscimento dei fatti", ha detto Abodi, ma tutto ciò c’entra poco con le sue mansioni di Ministro dello Sport, non abilitato ad avere un carattere politico proprio per la natura inclusiva dei temi a lui affidati dalla attuale Premier, unica ad aver titolo, vista la straordinarietà e la delicatezza degli accadimenti nella Striscia di Gaza, eventualmente a prendere una posizione politica nel nome anche delle istituzioni dello sport. C’è da augurarsi una situazione migliore, almeno di tregua, ad ottobre, per poter almeno sperare un punto di ripartenza in quelle terre martoriate. Lo sport faccia il suo, dove può e dove deve. Esondare da questo non gli ha mai portato bene nella storia.