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Un gioco talmente vincente, talmente sovrapponibile al residuo di etica sopravvissuto al cataclisma nella società occidentale sopracitato, da rendere liquefatto ogni nostro pensiero e ogni nostro desiderio nello sport divenuto una variazione del mondo dello spettacolo. All’inizio del nuovo secolo nei principali Paese occidentali irrompe dagli schermi tv “Big Brother”, che è il manifesto del concetto di vittoria slegato dall’epica e consegnato alla seduzione dell’immagine. Il successo del format è travolgente e planetario, ed è in questa nuova suggestione che le folle vengono addestrate ad accettare come evoluzione quello che nel calcio è stata una chiara involuzione(sarà un proliferare, dall’inizio del nuovo millennio, di format di intrattenimento con chiari intenti di condizionamento subliminale. Cambiare il punto di vista, questa è la parola d’ordine). L’importante non è più vincere per l’orgoglio e la storia di una comunità, ma solo per la propria immagine a cagione dell’aumento del proprio fatturato. E’ un modello di antropologia culturale che si avvinghia allo sport più seguito al mondo e prende a modellarlo per le nuove esigenze del capitale finanziario in procinto di impossessarsene. I costi vengono fatti lievitare senza limite rispetto al valore prodotto, per sottrarli, come detto, al buon senso del capitalismo industriale e di impresa, ed è in questo contesto a nascere il fenomeno delle multiproprietà nel calcio. Ed è stupefacente come siano riusciti a farcelo accettare come una possibilità in fondo non solo normale, ma eticamente lecita. Siamo di fronte all’ignoto davanti al capitalismo finanziario, ne ignoriamo i reticoli e i reali interessi, non sappiamo niente ma abbiamo la presunzione di sapere. Parliamo ossessivamente di futuro ma non teniamo in giusta considerazione il passato, e ignoriamo ostentatamente il presente. Duecento squadre fanno già parte di multiproprietà, così intrinsecamente legate tra loro e con la caratteristica di essere acquartierate in paradisi fiscali ben protetti e inaccessibili ad ogni controllo. Il fondo “Pif” agisce di concerto con la giapponese “Softbank”, la quale controlla “Fortress Investment Group”, uno dei più importanti fondi speculativi quotato alla borsa di New York.
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Non è raro che gli interessi di quest’ultimo incrocino quelli del “Newton Investment and Development Fund”, il fondo sovrano di Abu Dhabi che controlla il Manchester City e che ha rapporti con la potentissima “China Media Capital”. Ed è solo uno dei tanti schemi in atto. Le complicità corrono sul filo di interessi opachi e quasi sempre speculativi, l’idea è quella di fare girare denaro e contenuti senza essere sottoposti a controlli stringenti. Nessuno ha interesse a disturbare le cose del calcio. Il Jim Ratcliff padre padrone del colosso chimico “Ineos”, può saltellare tranquillamente tra i consigli di amministrazione del Manchester United e quello del Nizza come fosse una questione normale. Un tempo i tifosi sarebbero scesi per strada di fronte a cose di questo genere, ma un tempo il calcio era uno sport, oggi è sempre di più uno spettacolo attraverso il quale rintronarsi dagli affanni quotidiani. Non c’è storia e non c’è più tradizione, e ai futuristi della domenica pare andare bene così. Siamo all’interno della visione americana di avere un vasto portafoglio nell’industria dell’intrattenimento, ovvero una dei crocevia fondamentali dell’economia del ventunesimo secolo. Americani, arabi e cinesi, strettamente legati tra loro da un reticolo di fondi, stanno espropriando il calcio ad un capitalismo europeo quanto mai fragile. Le multiproprietà sono disegnate a catena piramidale, dove l’importante non sono le vittorie(quelle sono destinate al club al vertice della piramide, in un progetto di predestinazione che sono un’autentica blasfemia dello sport) ma la produzione di valore.
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Si allevano giocatori in ogni angolo di mondo, per poi distribuirli secondo la necessità del valore di produzione e non del progetto sportivo. Denaro e geopolitica finanziaria, questo è oggi diventato il calcio un tempo narratore di imprese sportive partite da una genesi sociale per poi diventare epica. Che tutto ciò sia oggi accettato dai tifosi è il vero mistero su cui la sociologia dovrà indagare nei prossimi decenni. Si è di fronte ad una psicologia alienata delle folle, e su questo disinvolti predatori del capitalismo contemporaneo stanno lucrando e ipotizzando affari. Facendo una analogia con il ciclismo, nella multiproprietà i club sotto il vertice della piramide sono i gregari che devono portare la squadra principale a vincere la volata finale. E tutto questo non solo sta avvenendo con il consenso, a questo punto assai inconsapevole, dei tifosi, ma sotto gli occhi dell’Uefa che in teoria dovrebbe difendere gli interessi del gioco in Europa. Accettare la multiproprietà è come considerare lecito il soggiorno del diavolo in paradiso, ma può darsi che a molti la versione di una versione infernale del paradiso in fin dei conti può stare anche bene. A costoro, sinceramente, auguro la miglior fortuna.
Scrittore, sceneggiatore e regista. Tifosissimo granata e già coautore con il compianto Anthony Weatherill della rubrica “Loquor” su Toro News che in suo onore e ricordo continua a curare. Annovera, tra le sue numerose opere e sceneggiature, quella del film “Ora e per sempre”, in memoria del Grande Torino.
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