“Alcuni sono cintura nera di bla bla bla”
Loquor
Comitato promotore per un nuovo Toro e futuro del calcio
Da Twitter
Pierluigi Marengo e Roberto Salerno hanno annunciato di voler trovare un compratore per il Torino, addirittura vorrebbero riunire una cordata di tifosi di eccellenza, una sorta di comitato promotore, al fine di individuare un soggetto economicamente forte, che possa formulare una intenzione di acquisto del club Granata ad Urbano Cairo. Ovviamente auguriamo al duo di portare a buon fine questa loro intenzione, anche se insistere sulla piemontesità dei componenti di questo ancora ipotetico comitato promotore non è stata proprio una bellissima cosa. Qualcuno la chiamerebbe una caduta di stile, qualcun altro di perdita di memoria su cosa sia il Toro e il suo mondo, qualcun altro ancora ci potrebbe vedere dietro chissà che cosa. Non amando molto i retroscena e l’eccessiva malizia, mi limito solo a rammentare al vulcanico Marengo come il Toro abbia una tifoseria e una storia dipanata un pò su tutto il territorio della penisola. Ecco perché stiamo parlando di un grande e non di un piccolo club. Ma lasciando da parte il sovranismo sabaudo, è realmente possibile individuare un possibile acquirente? O è solo un sogno di fine estate e inizio autunno? Perché un imprenditore dovrebbe infilarsi in una situazione fortemente indebitata, senza uno stadio di proprietà, e con la necessità, eventualmente, di investire diversi milioni di euro per invertire la rotta? E soprattutto: quale sarebbe l’identikit giusto dell’imprenditore su cui puntare? Gli ottimismi della volontà sono belli a vedersi, ma poi bisogna fare i conti con la realtà complicata, e sovente fallimentare, del calcio italiano. Qualche mese fa i giornali titolarono che l’Udinese era stata ceduta ad un fondo americano, con il closing ormai in itinere. La “Guggenheim Partners”, una società specializzata in raccolta di capitali e ristrutturazioni finanziarie di contesti in crisi, con circa 350 miliardi di dollari di asset, voleva stanziarsi a Udine attraverso il calcio, per dei motivi difficili, oppure facili fate voi, da immaginare. Perché una società con quasi il 30% di obbligazioni societarie ad alto rendimento(averle è come giocare con le freccette dalla tolda di una nave, sperando di centrare l’acqua), si voleva invischiare con una cosa come il calcio? E perché ora si è tirata indietro, bloccando di fatto un affare già dato per chiuso? Ossessionarsi con le domande è l’unico modo per incentivarsi a trovare delle risposte, anche per cercare di capire cosa stia sul serio diventando il calcio italiano. Giusto per capire di cosa si sta parlando, nella notte tra martedì e mercoledì il Consiglio Comunale di Milano ha venduto a Milan e Inter lo Stadio San Siro e le aree circostanti per 197 milioni di euro. In pratica più che di una vendita si è trattato di una svendita, e la cosa ricorda in modo impressionante le tristemente famose privatizzazioni operate dallo Stato verso la fine del secondo millennio. All’epoca i protagonisti furono Romano Prodi, Massimo D’Alema e Carlo Azeglio Ciampi, oggi è il sindaco Beppe Sala ad aver fatto l’ennesimo regalo a degli interessi privati, incarnati da due fondi americani di medio livello. E’ stata una vendita condita da molte polemiche e da tante propositi futuri, che conoscendo la storia italiana verranno ovviamente tutti disattesi, con un partito dell’opposizione, Forza Italia, pronto ad uscire dall’aula per così permettere alla giunta di sinistra, abbassando il numero legale, di far passare una decisione che definire contestatissima è dire poco. Difficile capire al momento, avendo comprato la stessa casa, come potranno convivere gli interessi di due grandi club come Inter e Milan, ma chi vivrà vedrà e tutto ciò lo si potrà cominciare a vedere dal 2030. L’affare per “Oaktree” e “Redbird”, ovvero i due fondi in controllo dei due club meneghini, è di quelli quasi irripetibili, specie in una città come Milano dove ormai non esistono più luoghi dove costruire e il cemento ha asfissiato qualsiasi cosa. E’ il prezzo da pagare per essere una città attrattiva, si dirà, ma intanto da rilevare è un prezzo pagato da biblico piatto di lenticchie.
Questa storia e quella dell’Udinese, dovrebbero far capire quanto prefigurare futuro e nuove proprietà ai club calcistici non è più una questione di promesse di diritti tv sempre più magri, ma è qualcosa legato alle politiche delle città e dei territori ad esse circostanti. La capacità di attrarre, insomma, riguarda l’abilità della politica di accendere i riflettori su una data cosa. E’ curiosa l’assenza della quasi totalità delle persone più ricche d’Italia dal calcio; il disinteresse, per esempio, di uno come Francesco Gaetano Caltagirone, uno che di club se ne potrebbe comprare tre se solo volesse, ad uno degli eventi più sentiti e seguiti nel Paese. Eppure l’imprenditore romano ha interessi che spaziano un po’ ovunque, persino nel difficile e ostico mercato dell’editoria. E allora perché il calcio no? Cosa manca a questo sport per attrarre un Piero Lardi Ferrari, che con il Toro, per esempio, potrebbe, stringere un binomio suggestivo di storia dello sport tra l’iconica Ferrari suggestione di famiglia e la squadra che fu corifea della ricostruzione dell’Italia del dopoguerra? Cosa non riesce a convincere Patrizio Bertelli e Miuccia Prada, ad unire il sogno della moda con lo sport più trasversale e seguito al mondo? Perché Andrea Pignataro, una delle persone più ricche d’Italia e d’Europa nonché azionista di maggioranza dell’azienda di materiale tecnico/sportivo “Macron”, ostenta indifferenza ad un investimento nel calcio? Scrivo e le domande e le ipotesi si accavallano, anche perché l’elenco dei ricchi italiani, che farebbero apparire Claudio Lotito e Urbano Cairo quasi come due anziani da rendita di buoni postali, sarebbe lungo. C’è qualcosa che non va nel calcio italiano, è evidente, se quando era in vita un toccasana per qualsiasi cosa si sia occupato come Giorgio Armani, ha preferito investire nella pallacanestro milanese piuttosto che in Milan e Inter. Questi pensieri esposti in maniera forse un po’ disordinata, dovrebbero far capire quanto non sia una impresa così facile trovare un imprenditore o una realtà finanziaria disponibile a rilevare il Torino, a meno che non si trovi una persona capace, come fu a suo tempo Aurelio De Laurentiis con il Napoli, a capire le potenzialità d’impresa del calcio. Un settore di certo atipico, inadatto per caratteristiche a seguire le normali procedure di sviluppo di un qualsiasi altro tipo di investimento o di produzione di valore, ma che ha un respiro di prospettiva futura come poche altre cose al mondo. Il calcio contemporaneo è rappresentazione costante dell’avvenire, proprio a causa dei cambiamenti che lo stanno stravolgendo, cambiamenti legati anche al business delle nuove tecnologie. L’Italia è un Paese a vocazione mediterranea, questo mare è il suo naturale sbocco economico e culturale, è la sua primaria attenzione riguardo la geopolitica; si riesce, quindi, ad immaginare, cosa potrebbero essere per noi i mondiali di calcio arabi del 2034? Lo sviluppo di Neom, la città di fondazione in “lunghezza” più tecnologizzata del mondo, sarà il vertice dell’appuntamento iridato più celebre del pianeta, e parte di questa tecnologia, lo si vedrà, andrà a ricasco proprio sul calcio. Una tecnologia che per forza di cosa influenzerà anche le attività del Mediterraneo, traendo dinamicità diffusiva dallo sport, dove tutto il mondo arabo, basti pensare al Qatar, sta investendo in modo massiccio. Ci vorrebbe una imprenditoria calcistica capace di intercettare tale cambiamento, delle figure del campo finanziario abili nel far capire ai ricchi quanto lo sport sia davvero un asset dove ricavare prestigio, potere e moltiplicazione del loro denaro. Occorrerebbe, però, riformare la struttura del calcio italiano, farlo diventare un sistema fruibile per chi con gli investimenti disegna anche il futuro.
La politica dovrebbe dare un segnale non solo sul favorire la costruzione di nuovi stadi, ma anche, attraverso degli interventi legislativi mirati, sull’attrarre investimenti sulle nuove tecnologie legate allo sport. E’ la visione politico/industriale a mancare al momento al Paese, incapace finanche di concludere in modo positivo la vicenda dell’Ilva di Taranto e di mantenere in vita una compagnia area di bandiera, nonostante i governi di ogni colore abbiano dichiarato di puntare sul turismo come il nostro petrolio. Bisogna tenere presente questo e altro quando si parla di cercare nuove proprietà per il calcio: non tutto si può prendere ad un’asta fallimentare e ripartire da una tabula rasa. “In principio era il Verbo, e alla fine le chiacchiere”, scrive Stanislaw Jerzy Lec, per cui augurando di nuovo alla accoppiata Marengo/Salerno la migliore fortuna per l’impresa che si sono proposti, speriamo tutto non finisca come chiosa nel suo aforisma il grande scrittore e poeta polacco. Vedo in giro da alcuni anni una grande voglia di futuro, ma impariamo a vederlo e a riconoscerlo.
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