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Non è un problema da poco, questo, perché quando si combatte una guerra, come si sta facendo contro il Coronavirus, è vitale individuare bene quale siano gli obiettivi. Che non può essere solo quello di avere meno contagi possibili. A volersi soffermare sul calcio, l’obiettivo non può essere semplicemente guariamo tutti e poi riprendiamo le partite. Perché i virus non scompaiono, come non scompaiono i terremoti. E allora, i dirigenti dello sport, a cosa stanno pensando per il dopo? Perché se il virus non scomparirà, non è davvero pensabile fermare il ciclo di tutte le attività umane. Dovremo conviverci, e decidere quale è il punto per noi non negoziabile. Questo impone la responsabilità di ognuno, perché la forza naturale insita nel mondo è quella che dice di andare avanti. Sempre. Sono uscite immagini che fanno vedere diversi giocatori impegnati a tenersi in allenamento tra le mura di casa. Ed è un modo di sancire come il mondo di “prima” non sia scomparso, ma solo temporaneamente necessariamente in letargo. E’ il tentativo di regalare barlumi di umanità perduta.
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In questi giorni si sta assistendo a reazioni esagerate, sia nei fautori che in “in fondo il Covid-19 è solo un’influenza”, sia in coloro che hanno intrapreso la dura crociata del “restare tutti a casa”. Non ci si deve certo suicidare e dobbiamo avere la massima attenzione verso questo virus (io più di altri, essendo in questo periodo sotto chemioterapia), ma forse dovremmo recuperare una certa distanza emotiva ed intellettuale dalla nostra classe dirigente (sportiva e non), per cercare di capire in questi giorni casalinghi quale futuro ci prefiguriamo. Cosa vogliamo dalla politica? Cosa vogliamo dal calcio? Cosa vogliamo da tutte le attività umane? Sono giorni, questi, in cui tante contraddizioni sono venute alla luce, con i muri delle frontiere tornati ad alzarsi alla velocità della luce. Non solo sta apparendo chiaro come l’Europa sia un luogo dove gli stati hanno decisamente interessi divergenti, ma se si pensa alle numerose amichevoli estive fatte dalle squadre in giro per il mondo, vien quasi da pensare che ci si trovasse in un enorme videogioco mondiale. Non c’era sostanza in quel circo, se non l’odore delle banconote.
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Ho sempre avuto pudore di chiedere a mio padre i sentimenti che gli attraversavano l’animo, durante le sue “gite” islandesi in barca, ma oggi una domanda, se l’avessi davanti, la farei ad una dottoressa di origini rumene di una guardia medica a nord di Roma. Qualche sera fa colui che collabora con me in questa rubrica, Carmelo Pennisi, è stato raggiunto da un’ernia iatale dolorosissima, e a notte fonda. Nessuna pillola per calmare il dolore faceva effetto e, ad un certo punto, decide, senza molta convinzione poiché pensava che tutti i medici fossero occupati con il Covid, di chiamare la guardia medica. Sorprendentemente dall’altro lato del telefono trova un angelo dalla parlata italiana incerta, ma che immediatamente si mette a disposizione del problema. La dottoressa, alle tre di notte, si mette in viaggio per raggiungere, dopo trenta chilometri, l’abitazione di Carmelo. Dopo aver visitato a lungo e per bene il mio amico, la dottoressa trova il rimedio giusto per quel dolore indicibile. “Sono venuta – ha detto- perché avevo timore che potesse esserci qualche problema al cuore. Non si poteva rischiare. Ecco perché non l’ho mandata al pronto soccorso di un ospedale”, e mentre scrivo queste parole l’emozione pare sopraffarmi. Anche perché, uscendo di casa per accompagnarla all’automobile, Carmelo ancora una volta si è reso conto di che reale sostanza possono essere fatte le persone. L’automobile della dottoressa era una vecchia ypsilon 10, con uno dei due fari fulminati e una portiera che si apriva a stento. “Quella donna – mi ha detto Carmelo – stava per farsi alle tre di notte altri trenta chilometri in quelle condizioni. E questo solo per curare me, per sincerarsi che stessi bene. Sono entrato in casa e mi sono lasciato andare ad un pianto di commozione”. Questo aneddoto mi ha improvvisamente ricordato mio padre e la sua barca, e le lacrime di Carmelo le vorrei dedicare a quella ragazza con cui ho polemizzato in un video pochi giorni fa. Cara ragazza, gli uomini sono fatti di responsabilità e di progetti, e oggi tutto il personale sanitario sta lottando senza sosta per difenderci dal dolore. È per loro, per il loro immane sacrificio, che dobbiamo, anche chiusi tra quattro mura, pensare a progettare il mondo di domani. Anche nel calcio (davvero non si vuole provare a rimettere in discussione qualcosa del meccanismo infernali del calcio?). E se avessi davanti la dottoressa rumena, non potendo abbracciarla, le farei un lungo inchino. Augurandole la possibilità di avere prima o poi un’automobile nuova. L’umanità va avanti. Coraggio. Torniamo a credere sul serio alle nostre idee. Questo è il nostro tempo, e non ce ne sarà uno migliore.
(ha collaborato Carmelo Pennisi)
Anthony Weatherhill, originario di Manchester e nipote dello storico coach Matt Busby, si occupa da tempo di politica sportiva. E’ il vero ideatore della Tessera del Tifoso, poi arrivata in Italia sulla base di tutt’altri presupposti e intendimenti.
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