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I giorni d’Azzurro della Coppa Davis

Carmelo Pennisi
Carmelo Pennisi Columnist 
Torna Loquor, la rubrica su Toro News di Carmelo Pennisi: “Sono 56/59 grammi che ondeggiano verticalmente in attesa della tua decisione di dare l’inizio all’emozione… e intanto c’è silenzio”

“Grazie a tutti. Non so che dire. Questo è il giorno più bello della mia vita. Ho sempre sognato di indossare questa maglia. Farlo in Italia è stupendo”. Toccare la terra, respirare la sua aria, afferrare con il cuore l’attimo in cui sei la continuazione di qualcosa di incomprensibile alla ragione. Ti abbassi con il tronco e con gli occhi per far rimbalzare più volte la pallina sul terreno. Sono 56/59 grammi che ondeggiano verticalmente in attesa della tua decisione di dare inizio all’emozione… e intanto c’è silenzio. Cartoncini tricolore, volti tricolore, capelli finti tricolore e ogni altra diavoleria possibile tricolore, trattengono il respiro, o almeno ci provano. Forse riesci a dare un’occhiata rapida alla bambina con indosso una magliettina azzurra e una piccola bandierina tricolore di plastica in mano, o forse no. Ma di certo immagini ci sia, perché se anche il numero uno e il numero due del tennis italiano non ci sono, Bologna ha deciso comunque di non lasciarti solo: e tu sei qui per batterti, e non perché sei un tennista, ma per la maglia azzurra che abbassandoti per far rimbalzare la pallina ora nella parte bassa ha assunto una forma a onda. La vedi: è quasi una vela increspata dal vento. Hai ascoltato l’intervista del dopopartita del tuo compagno Matteo Berrettini, dove emozionato come non mai ha detto: “Gioco a tennis per questi momenti, e mi rendo conto in questo caso che lo sto facendo per tutti”. Eh sì, giocare per il tuo Paese è una vertigine di emozioni che nessuna somma di denaro, per quanto grande, ti può dare. C’è stato un tempo in cui la “Coppa Davis” era andare a giocare per case e sangue nelle vene, potevi essere nei tuoi anfratti come in quelli degli altri, con facoltà di poter scegliere una superficie di gioco a te scomoda per avere delle chance in più di vittoria.

Un tempo provare a vincere la “Davis” voleva dire farsi ore interminabili di aereo per giocare nella terra battuta di Santiago del Cile resa plumbea dal Generale Augusto Pinochet o nell’erba di una surreale Sidney dove anche il cielo può apparire un illustre sconosciuto per quanto è diverso. Cercare di ottenere quella benedetta “Insalatiera d’Argento” consisteva nell’inerpicarsi nel dolore, nella sofferenza e nell’esaltazione di incontri al meglio dei cinque set, con il tormento delizioso di sapere di non giocare solo per te stesso ma per una Nazione intera. E tutto questo sottomettendo la tua fatica alle gesta del gioco più planetario, universale e popolare del mondo. Perché questo è il tennis, e solo il calcio può stargli dietro. La “Davis” quindi poteva diventare una battaglia sorprendente nei risultati e nelle emozioni, in cui la politica poteva giocare un ruolo non indifferente nella sua narrazione e nello scorrere della sua epopea. In “Terribile Splendore” di Marshall Jon Fisher, a mio parere il più bel libro sul tennis mai scritto, si racconta la vicenda della partita tra Donald “Don” Budge e Gottfried von Cramm nella semifinale di “Coppa Davis” del 1937, una partita che il tedesco, omosessuale e di famiglia nobile, deve vincere a tutti i costi per ordine espressogli direttamente da Adolf Hitler, se non vuole pagare pegno per la sua omosessualità. Sulla finale del 1976 tra Cile e Italia a Santiago del Cile sappiamo tutto sulle polemiche che la precedettero sull’opportunità o meno di andare a giocare la finale a casa di un regime dittatoriale, omicida e torturatore. Alla fine andammo anche grazie alla favorevole posizione espressa dal Partito Comunista Italiano allora guidato da Enrico Berlinguer. Adriano Panatta e Paolo Bertolucci nel giorno del “doppio” scendono in campo con delle magliette rosse come segno di rivalsa e di protesta: l’Italia gioca ma non dimentica il Cile che sta soffrendo. Queste sono solo due delle tante storie ad aver animato una coppa oggi ridotta ad essere un fantasma di quello che è stata, tanto da poter pure considerata una quasi ex Coppa Davis.

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Il mio amico Gianni Clerici, da me tanto compianto, poco prima di andarsene aveva definito l’attuale format un circo equestre. Non era uno attaccato al passato, Gianni, anche se di certo a volte si manifestava come un sentimentale nostalgico, ma ha amato il tennis e i suoi giocatori come pochi altri, e per lui la “Davis” era una questione di onore e del dna del tennis da rispettare. Il suo amore viscerale per i giocatori gli impediva di criticare la loro defezione alle vicende della coppa, esattamente come una madre devota difende finanche con la sua ombra le scelte sciagurate dei suoi figli, ma in cuor suo ne soffriva e lo capivi da tante sue incomparabili locuzioni, aggettivi e metafore. “Diventiamo tutti vecchie case”, scrisse malinconicamente una volta, non ricordo più se su “L’Espresso” o “La Repubblica”, e si capiva quanto il gioco lo entusiasmasse ancora pur non riuscendo ad accettarne fino in fondo i cambiamenti che lo stavano rendendo sempre più inanimato. Chissà quando abbiamo abbandonato l’idea che qualcosa possa essere inconcepibile; un giorno, senza che ce ne accorgessimo, è entrato un virus nelle pietre senza età del mondo scartavetrandone il senso e lo abbiamo accettato alla stessa stregua di una novità ineluttabile, arrivando a commisurarlo addirittura come un progresso. Lo confesso: non sono riuscito ancora a capire in cosa consisterebbe il progresso in un format simile in modo impressionante a “Giochi Senza Frontiere”, un medioevo tv in cui il competere tra Nazioni era la scusa per incitare ad abbattere le frontiere e creare una Europa unita. Uno slogan, insomma. La nuova Davis, va detto con franchezza, in ogni momento rischia di essere parodia, ma per fortuna ci sono ancora gli uomini, a dispetto dell’Intelligenza Artificiale, a fare la differenza.

E quindi si ritorna a Flavio Cobolli che sta palleggiando con cura i suoi 56/59 grammi e a Matteo Berrettini, due romani di sangue e di intelletto che sentono la maglia azzurra allo stesso modo dell’incanto di una venuta al mondo. Sono capitolini, quindi chissà quante volte avranno percorso, ancora infanti, la salita di “Via Ventiquattro Maggio” proprio verso quel “Quirinale” dove imperituro sventola il “Tricolore”. È emozione indescrivibile passarci ogni volta davanti; pensi alla tua terra, alla tua gente, anche se lo stai costeggiando per andare a compiere la banalità quotidiana di andare a pagare una bolletta del telefono alla posta o una compera alla libreria Feltrinelli. Abitare a Roma è un tale privilegio non solo per la sua bellezza, ma soprattutto per l’idea che qui ogni diversità potenzialmente divisiva del nostro Paese si fonde e diventa unità di cui ognuna è carisma. Per questo motivo rimproverare a Jannik Sinner di essere poco italiano è un andare contro quella Roma che tutti ci rappresenta e ci accarezza con la sua storia. Cobolli e Berrettini ciò lo sanno fin troppo bene, ecco perché sentono l’azzurro, ecco perché faranno di tutto, e anche di più, per portare la terza “Coppa Davis” consecutiva a casa. Vedi i loro gesti, le loro espressioni, tutta la loro vitalità, e a quel punto è facile capire come per loro la “Davis” sia ancora quella di Donald Budge, di Gottfried von Cram, di Bill Tilden, di Rod Laver, di John Newcombe, di Adriano Panatta, di Guillermo Vilas, di Yannick Noah, di Boris Becker, di Roger Federer, di Novak Djokovic, di Rafael Nadal e l’elenco sarebbe lungo a compilarlo tutto. Sì, sono ancora le persone a fare la differenza in questo “futurismo” da spot e da brand, persone declinate dalle loro scelte e dalle loro decisioni. La gente, dalle gradinate di Bologna, li “sente” i nostri giocatori e li sta accompagnando a nome di tutti noi che siamo a casa davanti alla tv. Ora puoi alzare quella tua pallina, Flavio, perché hai attraversato tutti quegli attimi che ti danno la forza e il senso di farlo. Alza la pallina e dagli il giusto “lift”, e che la partita abbia inizio. Portate a casa ancora una volta l’Insalatiera d’Argento più suggestiva del mondo: sappiamo che potete farlo.

Scrittore, sceneggiatore e regista. Tifosissimo granata e già coautore con il compianto Anthony Weatherill della rubrica “Loquor” su Toro News che in suo onore e ricordo continua a curare. Annovera, tra le sue numerose opere e sceneggiature, quella del film “Ora e per sempre”, in memoria del Grande Torino.

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