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Il 4 maggio e il disonore di Napoli-Torino

Il 4 maggio e il disonore di Napoli-Torino - immagine 1
Torna "Loquor", la rubrica a cura di Carmelo Pennisi, con un nuovo appuntamento
Carmelo Pennisi
Carmelo Pennisi Columnist 

“Di colpo il sole si levò, e fu un’esplosione di speranza”

Vasily Grossman

Alla vigilia del 4 maggio ritorna a fare capolino il dolore, quella sensazione che ogni tifoso del Toro si porta dentro come pegno pagato all’amore per una maglia, a cui gli “Invincibili” hanno donato dignità e onore. “Si muore una sola volta”, è l’adagio dei coraggiosi di ogni tempo; “si muore una volta sola. Si vive ogni giorno” dice Snoopy a Charlie Brown in una celebre vignetta disegnata da Charles Schultz. La saggezza di Snoopy deve essere sfuggita ai giocatori Granata scesi in campo nell’ultimo Napoli-Torino, una delle pagine tra le più oscene della storia del Toro degli ultimi venti anni.

Prova oscena in primo luogo per aver dato la sensazione di non sapere quale vigilia stesse vivendo il club nel quale al momento militano, ovvero quella del giorno del ricordo più caro, quel lasso di tempo dove non vi fu solo la grandezza ma anche la condivisione di una empatia nazionale che scavallò ogni maglia e ogni tifo. In secondo luogo perché gli uomini che sono scesi in campo al “Maradona” ce l’hanno messa tutta a disonorare lo sport, schivando ogni tipo di impegno e regalando al Napoli una sorta di passerella celebrativa. Più scorrevano le immagini della partita non partita, più aumentava il mio disagio.

Non sanno quegli sciagurati che fanno finta di giocare per il Toro, che Valentino Mazzola salì sull’aereo maledetto ancora in preda ad una febbre da cavallo. A Lisbona bisognava omaggiare un uomo di sport, e mantenere una parola data. Gli sciagurati si allenano nel luogo dove “Loro” riuscirono con le loro gesta a risollevare l’umore di un Paese intero, ma non ne hanno contezza. Soprattutto non ne hanno rispetto. Dobbiamo smetterla, per favore, di dire che non è colpa loro, che sono giovani di oggi e figli di questo calcio moderno e mercantile, che è colpa di un vertice di un club probabilmente più sciagurato di loro.

Esiste un principio di responsabilità, e finanche di lealtà sportiva, che gli sciagurati del “Maradona” hanno consapevolmente ignorato. C’è stato un tempo dedicato ad un Toro che scendeva in campo con il solo scopo di non morire, quasi a voler riscattare quel fato maledetto che si era portato via tanta bellezza in un pomeriggio di maggio uggioso. I giocatori Granata, pervasi dal furore e consci di un destino, mangiavano erba e sciorinavano furore, e la Juventus lo sapeva fin troppo bene. Non era vincere o perdere, era vivere o morire lottando. Non c’erano eccezioni, non esistevano cedimenti, il Toro era i “300” delle Termopili, e Giorgio Ferrini o Paolo Pulici, potete scommetterci, avrebbero venduto cara la pelle prima di far passare un solo “nemico” dalle loro parti. Non è mitologia, non è agiografia esagerata, era la realtà della squadra Granata, era questa fedeltà al mito a renderla speciale. Chiunque ha avuto il privilegio di vedere, sa bene di cosa sto parlando. Con il Toro di Gigi Radice, Nereo Rocco o Gustavo Giagnoni mai si sarebbero presi quei due gol assai umilianti e ridicoli di McTominay, “Vivere ogni giorno come fosse l’ultimo”, scrive nelle sue “Odi” Orazio, perché il tempo fugge invidioso e in direzione della morte.

E se l’oggi è la premessa del domani, l’oggi visto a Napoli ci dice di lasciar perdere ogni speranza. Vanoli ha messo in campo una squadra con il compito di anestetizzarci ancora una volta: “non vi agitate, vogliamo semplicemente darvi la certezza che domani non succederà nulla”. Vorrei dire una cosa agli sciagurati di Napoli: se il 4 maggio di ogni anno saliamo a Superga, è perché non siamo sordi e abbiamo ancora occhi per vedere. Non siete in grado, sciagurati con il cervello nei piedi e il cuore imbalsamato in un conto bancario, di farci dubitare di noi e del nostro discernimento. Sappiamo cosa avete fatto al “Maradona”, siete voi che non sapete cosa ci avete fatto. Perdere è una variante dell’orgoglio di mostrare vitalità, è raccontare al mondo, magari a qualche bambino in attesa di innamorarsi del furore, che l’unico modo di poter accettare la sconfitta è dopo aver lottato.

Il Grande Torino fu parte importante di un disegno complessivo ai confini del divino, della rinascita di un Paese che era più umiliato che stordito. Vent’anni di dittatura, con una guerra e distruzioni annesse, farebbero perdere la fiducia sul futuro a chiunque, eppure tante cose si mossero all’unisono per far tornare a far splendere il sole sul cielo dell’Italia. Quei grandi giocatori si imbarcarono sull’aereo maledetto, anche perché consci di essere una delle migliori cartoline dell’Italia dell’epoca. C’era bisogno di far capire a tutti, ogni volta che se ne presentava l’occasione, che noi si era pronti a ripartire e a dispensare bellezza. Egregi sciagurati di Napoli, qualcuno dovrebbe farvi capire come il 4 maggio non sarà un autobus a portarvi sulla collina di Superga, ma una storia. Una delle poche storie ancora collegate con la natura costitutiva originaria del calcio, una di quelle storie capaci di tenere fuori il gioco più seguito al mondo dal mercimonio voluto da gente come Gianni Infantino.

E’ passato tanto tempo da quando Valentino Mazzola e compagni si sono dissolti dallo scorrere quotidiano degli uomini, è stato l’attimo da cui poi è cominciata la danza dei ricordi e della malinconia. Da quell’attimo l’Italia è stata scritta e riscritta tante di quelle volte, da sembrare oggi altro da allora. Completamente altro. Eppure, andando a scavare sotto il cinismo con il quale ci difendiamo dalle intemperie della cattiveria, incrollabile è rimasta la speranza dell’idea del bene sociale, con la visione, forse illusoria, come tutto in fondo sia compiuto in nome del bene. Se proprio non ci crediamo, comunque aspiriamo a crederci. Nell’eterna lotta di tutti contro tutti, l’amore per una maglia e per ciò che rappresenta, significa il momento nel quale desideriamo con tutte le nostre forze di essere il sorriso e non il pianto.

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Perché, sciagurati di Napoli, volete mortificare il nostro desiderio di voler essere migliori? Voler essere migliori non è una ambizione, ma è un afflato nascosto che ci portiamo dentro. Infatti il luterano Viggo Mortensen, l’artista poliedrico tra i protagonisti de “Il Signore degli Anelli”, ha finanziato la costruzione della cappella cattolica della squadra del San Lorenzo de Almagro. Ha voluto mettere lui tutti i soldi, nel ricordo della sua infanzia passata a Buenos Aires in cui si innamorò della squadra di cui è stato socio Papa Francesco. Si saltano steccati apparentemente invalicabili quando si decide di essere migliori, e fu questo ad unire l’Italia attorno al mito del Grande Torino. Il Granata fu il colore in cui confluirono tutti gli altri colori, in una magnifica parentesi temporale che doveva restare a futura memoria. “La lealtà è un debito sacro”, scrive Luigi Pirandello, ma se non si capisce verso chi o cosa esercitare tale atteggiamento, si finisce per rimuoverla dal nostro orizzonte e andare a Napoli come se si fosse in una gita da sabato del villaggio. Sentimentalmente sbracati, gli sciagurati di Napoli hanno pensato bene di tirare dietro la gamba e di non urtare il clima di festa, regalando tre punti forse decisivi per l’albo d’oro del campionato italiano. Non consapevoli che avrebbero dovuto onorare una maglia e la lealtà sportiva, questi soggetti saliranno tra qualche giorno a Superga a far finta di omaggiare qualcosa che non sono, in tutta evidenza, in grado di capire. Ci sarà un capitano, oramai condannato da una presidenza incommentabile ad essere eternamente pro tempore prima di essere messo sul mercato, a declinare nomi di giocatori da lui sideralmente lontani per postura esistenziale ed etica.

“I segni- disse una volta Karol Wojtyla – svolgono lo stesso ruolo della poesia: cercano di dare un linguaggio all’ineffabile”. Il segno ineffabile giunto da Napoli Torino, è che per i giocatori e i presidenti un’epoca si è chiusa per sempre. Per questi la vita è marketing oppure è commercio. Il 4 maggio la bandiera del Toro sventolerà ancora una volta su Superga, e sarà un tifoso a tenerla in mano. Sarà un simbolo di resistenza e di memoria. Aggrappiamoci a questa speranza, e attendiamo tempi migliori. Possono arrivare all’improvviso, come all’improvviso se ne andarono in un pomeriggio uggioso di maggio. Lasciamo la sciagura agli sciagurati, noi possiamo essere migliori.

Scrittore, sceneggiatore e regista. Tifosissimo granata e già coautore con il compianto Anthony Weatherill della rubrica “Loquor” su Toro News che in suo onore e ricordo continua a curare. Annovera, tra le sue numerose opere e sceneggiature, quella del film “Ora e per sempre”, in memoria del Grande Torino.

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