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Il derby

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La Juventus era “La Bastiglia” della famiglia Agnelli, e bisognava a tutti i costi provare a prenderla
Carmelo Pennisi
Carmelo Pennisi Columnist 

“E’ diventato schiuma

per non morire del tutto”

Jules Supervielle

Se un tempo incontravi un tifoso del Toro nella settimana che precedeva il derby, poteva darti l’impressione di uno con i vestiti strappati, una brutta faccia e l’espressione di uno che non dormiva da parecchi giorni. Eppure era veramente bello. Inossidabile nell’attesa e nella fede che qualcosa al “Comunale” sarebbe successo, fosse anche un pugno di Giorgio Ferrini ad Omar Sivori. E’ difficile spiegare oggi ad un tifoso del Toro dai 35 anni in giù cosa era il “Derby della Mole”, perché qualsiasi racconto non renderebbe chiara nemmeno lontanamente l’idea di cosa sia stato il mondo fino alle fine degli anni 80. Un mondo nato dalla Rivoluzione Industriale e che aveva reso i borghesi infinitamente ricchi e i lavoratori con una coscienza di classe ma con la scarsella vuota. Il fascino di Torino Juventus non era dato dalla forza delle squadre, era qualcosa di unico al mondo somigliante ad una pagina partorita da Charles Dickens, era conturbante vigilia di una rivoluzione sempre in procinto di accadere. La Juventus era “La Bastiglia” della famiglia Agnelli, e bisognava a tutti costi provare a prenderla per ribadire come non possa vincere sempre l’ingiustizia.  Erano Danton, Marat e Robespierre i tifosi Granata, un po’ più “buoni” degli originali ma animati dalla stessa indignazione venuta su con la convinzione che il ricco non poteva e non doveva rubare ogni cosa a chi aveva meno di lui. Torino era il centro dell’industrializzazione dell’Italia postbellica, e gli Agnelli avevano sostituito i Savoia come Casa Reale.

Era un derby, quello di Torino, da ideologia dell’esistenza, anima delle pietre di una città in continua evoluzione a partire dalla metà dell’800. Torino poteva essere l’aristocrazia della società civile degli Agnelli o don Giovanni Bosco che parlava in Piazza San Carlo con gli spazzacamini adolescenti, che gli raccontavano le problematiche del loro mestiere sovente assediato da soprusi. E’ un teatro di guerra, il capoluogo piemontese, e lo si accetta in blocco senza reticenze e senza fare finta, in seguito, come il calcio sia solo un gioco. Non puoi far capire a chi ha dai 35 anni in giù cosa fosse il mondo italiano prima della rivoluzione digitale della “Silicon Valley”, della globalizzazione del commercio e della produzione, della introduzione dell’euro. Quando erano i limiti dei      quartieri ad essere frontiera e non la linea immaginaria tracciata dai conti correnti, Torino Juventus era anche guerra degli istinti, a processare anima, cuore e ragione. Tifare Toro era l’estasi utopica della felicità di chi non vuole vincere, ma testimoniare la sua diversità di valori attraverso il calcio. Giorgio Ferrini che tira un cazzotto a Sivori oggi darebbe la stura a diversi dibattiti sull’inciviltà del giocatore, con la moviola a ripetere le immagini dell’accaduto infinite volte per provocare sensazioni negative nello spettatore, che deve essere educato alle buone maniere. Nel 1963 invece era sintomo di voglia di rivolta, di far capire come ad un certo punto la storia non si possa fare sempre con le buone maniere. I tifosi del Toro erano dei sopravvissuti alla tragedia di Superga, non solo per il trauma doloroso di aver perso in un attimo una squadra leggendaria, ma anche per il fatto che c’era la sensazione di una Juventus determinata a voler far pagare ai Granata quella supremazia detenuta dal Grande Torino per tutta la seconda metà degli anni 40. Dovevano soffrire i tifosi del Toro per quello sgarbo, bisognava schiacciare quel loro sentimento di gloria passata attraverso una potere che impedisse alla loro squadra di rivivere un seconda lunga stagione di grandi successi. Non si può capire la gioia provata dalla vittoria dello Scudetto del 1976, se non si va al suprematismo bianconero incline a non volere fare prigionieri: dopo l’annientamento di Valentino Mazzola e compagni era stato risorgere per un attimo da dolore, e dal menefreghismo juventino dal carattere totalitario ogni volta pronto a minimizzarlo, con i gesti annoiati riservato ai reduci che ti raccontano la solita storia sulla loro guerra. Essere contro la Juventus voleva dire essere contro gli imboscati dei sentimenti, gli eccitati delle vittorie ottenute a qualsiasi costo, una specie di bulimia da desiderio del predominio. Il Toro era sentimento e movimentismo, era “carogna” che saliva verso “quelli là”, era essere repubblicani contro una squadra che inneggiava e omaggiava una idea di monarchia assoluta. Non si poteva accettare la concessione del Sovrano per sopravvivere, il tifoso Granata voleva vivere e prima o poi rendere il Sovrano meno assoluto. Non è una idea politica, è un inno alla vita davanti alla quale il Toro ribadisce l’uguaglianza sin dalla nascita e con le stesse possibilità di abitare il mondo. Torino Juventus era figlio di quella rivalità figlia del mondo moderno post “Ancien Regime”, che inesorabilmente cambia a partire dagli anni 90.

Il licenziamento di Vittorio Ghidella, padre della “Panda”, della “Uno”, della “Thema” e altro ancora, per far vincere la linea della “diversificazione” voluta dal patron di “Mediobanca” Enrico Cuccia e interpretata in Fiat da Cesare Romiti, sposta dal manufatto automobilistico alla finanza e all’immobiliare l’interesse del più importante conglomerato industriale d’Italia. Siamo agli albori del cambiamento di un mondo e del declino della classe operaia italiana, e quindi della mutazione anche dell’idea originaria su cui il “Derby della Mole” era fiorito, ovvero nella sua rivalità socio/culturale. Certo il Toro era entrato in una odissea societaria che nel 2005 lo avrebbe portato addirittura al fallimento,e che oggi continua con una presidenza Cairo mai così lontana da una minima idea di interpretare almeno un pallido ricordo di cosa voglia dire essere il Toro nella città dove esiste anche la Juventus. “Il Derby è fondamentale. Andrò a parlare con la squadra perché ci tengo troppo”, dice oggi Urbano Cairo, senza rendersi conto quanta parodia ci sia nel suo agitarsi, anche quando dice di “voler dire una parola giusta a tutti quanti”. Quale sia questa parola giusta non lo dice, anche perché cosa vuoi dire ad una rosa che ha 14 giocatori che per la prima volta vivranno un derby di Torino? Cosa mai potrà raccontare Urbano, per fargli capire in quale luogo del mondo sono capitati? Il derby è per prima cosa un luogo, da dove i presidenti di Juventus e Torino sono lontani sia fisicamente che con l’anima. Quindi cosa vuoi raccontare? Ai tifosi del Toro dai 35 anni in giù è rimasto vivo almeno il mito di Superga, ravvivato dalle commoventi parole di un Giovanni Simeone, che pare essere nato proprio per giocare nel Toro. “I just haven’t met you yet”(non ti ho ancora incontrato) canta Michael Bublé; è vero, ci sono cose destinate ad incrociarsi perché nate per fare gli stessi passi, come Giovanni Simeone e il Toro. Nel giocatore argentino avverti quel furore antico una volta presente in chi indossava la casacca Granata, la voglia di vivere il calcio del perimetro e delle origini, la grandezza fatta non dalla ossessione delle vittorie ma dalla consapevolezza di essere sempre una luce nuova. C’è stato un tempo in cui nessuno come il tifoso del Toro sapeva che il calcio non è solo un gioco, ma felice risultato della semina di chi non si arrende a forgiare speranza. “I know someday that it’ll all turn out”(so che un giorno tutto andrà per il meglio), continua a cantare Bublé, e siamo obbligati a pensarla così, altrimenti perché alzarsi dal letto la mattina? C’è stato un tempo in cui realtà e arte si fondevano, e come scrive Hannah Arendt “qualcuno resterà sempre in vita per raccontare”. Il calcio come arte del racconto sociale però non esiste più, e allora cosa attendiamo oggi la settimana prima del “Derby della Mole? Perché il tifoso Granata dai 35 anni in giù non vuole essere come “quegli altri”? Piove, per strada osservo una pozzanghera dai contorni immobili. Vorrei avesse una risacca per avere la piacevole visione di un frangente, frutto di uno scontro di correnti avverse. Risiede in questo l’origine di ogni vivere, l’ansia di dare un senso alle cose… era così l’attesa del “Derby della Mole”.

Scrittore, sceneggiatore e regista. Tifosissimo granata e già coautore con il compianto Anthony Weatherill della rubrica “Loquor” su Toro News che in suo onore e ricordo continua a curare. Annovera, tra le sue numerose opere e sceneggiature, quella del film “Ora e per sempre”, in memoria del Grande Torino.

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