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Un giorno “El Gordo” scova quest’ultimo in una casa di riposo e, pensate un po’, riesce a fargli confessare tutte le sue gabole, manco fosse stato un prete dentro un confessionale. “Ehi Osvaldo, è proprio vero. Approfittavo dei momento di bagarre e confusione per far giocare la mia squadra in dodici”, e via con il periodare divertito di Soriano, che descrive un Fernandez particolarmente fiero delle sue malefatte. Era un calcio dove i tifosi amavano sul serio i giornalisti migliori, cantori di ogni loro battito di cuore. Non gli fregherebbe nulla del miliardo di montepremi di Infantino, al tifoso del “San Lorenzo”, la squadra di “El Gordo” e di Papa Francesco, che ogni domenica si recava sulla tomba dell’autore di “Triste, Solitario y Final”, poggiava una radio davanti la lapide e via con la radiocronaca della partita del “San Lorenzo”. Pare che, da sotto la lastra di marmo, si sentisse battere il cuore del più grande giornalista sportivo che l’Argentina abbia mai avuto. E mentre il tango del calcio continua a ballare e i ragazzi di strada argentini hanno appena travolto il Brasile nella partita della qualificazione per prossimi mondiali, anch’essi americani, la memoria storica va ad una giornata di settembre del 1924, quando il Savoia di Torre Annunziata sfidò il grande Genoa, già vincitore di otto campionati, in una partita che valeva lo “Scudetto”. Il Savoia perse la partita, ma le cronache raccontano che i tifosi torresi dopo il fischio finale dell’arbitro portarono a spalla in trionfo tutti i ventidue giocatori per le strade della città.
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Il calcio è una festa totalizzante quando vive la sua natura sociale costitutiva; la socialità è una delle cose per cui vale la pena vivere, in cui la gente accorre nella piazza raccontata da Giuseppe Tornatore nello splendido “Nuovo Cinema Paradiso”, dove lo scorrere delle storie incanalate dal proiezionista Philippe Noiret, sono la scusa per creare ricordi veri e immortali. Nelle relazioni attraverso i sentimenti, la vita scorre adeguatamente da loro protetta; essi ti invitano a parlare anche con degli sconosciuti, incontrati per caso sulle gradinate di uno stadio. Il calcio, quello vero e non quello di Infantino e delle piattaforme tv, ha un linguaggio comune, una sorta di esperanto esistenziale, con dei codici facilmente riconoscibili per chi lo vive nella sua vera essenza. Jurgen Sparwasser, il mito calcistico della Germania di sponda socialista, colui che segnò lo storico gol della vittoria mondiale del 1974 contro i cugini dell’ovest, quelli di Franz Beckenbauer e Gerd Muller, fu invitato nella cabina del pilota dell’aereo che stava portando il Magdeburgo a Torino per giocare una partita di Coppa dei Campioni contro la Juventus. Un bel libro di Giovanni Tosco(“Sparwasser-L’Eroe che Tradì”. Consiglierei a chiunque di comprarlo e leggerlo) rammenta le parole del pilota, dette con voce rotta dall’emozione, non appena dall’aereo si avvistò la collina di Superga: “lì è avvenuta la più grande tragedia dello sport, la tragedia del Grande Torino. Mai c’è stata una squadra così forte, mai ci sarà una squadra così forte. E mai era accaduto che un’intera nazione provasse un sentimento tanto profondo quando l’aereo si schiantò contro la collina. Era il 4 maggio del 1949. Io sono sempre stato tifoso del Toro e all’epoca ero un ragazzino. Quanta sofferenza ho provato”.
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Il calcio, come detto, ha un linguaggio universale, e Sparwasser si commosse a tal punto, come ci racconta Tosco, che una volta in albergo raccontò questa storia a tutti i suoi compagni. Il miliardo messo a disposizione dalla Fifa sfregia la memoria dello sport più seguito al mondo, e rende tutto ciò che lo ha preceduto obsoleto e indisponibile alla comprensione di questa contemporaneità. Questo miliardo è sfacciato, persino lussurioso negli appetiti, e attacca la nostra libertà di voler rimanere illibati rispetto al consumismo indotto. Questo miliardo vuole renderci complici della dilatazione all’infinito del “plusvalore”, manipolando la coscienza verso uno strano inno alla modernità. Questa modernità vagheggia la cancellazione del rimorso, distruggendo ogni mito nel suo solo nome. Lo confesso: mi manca il contropiede, quello in cui, come scrive Osvaldo Soriano, “il difensore ha sempre in sé qualcosa di colpevole, furbastro, sleale”. La tecno/etica del Var ha tolto la bellezza del libero arbitrio, il narcisismo di alcuni allenatori ha tolto la fantasia del guizzo improvviso dal gioco, la pausa pubblicitaria durante le sostituzioni dei giocatori ha reso tutto una giostra mal funzionante, lo svolgersi dell’evento simmetrico in tutte le sue componenti ha tolto il sacro e lasciato una vuota liturgia. Poi su “You Tube” vedi un giovanotto dirti con sicumera sbilenca, che la multiproprietà e i fondi di investimento sono la modernità del calcio. Istintivamente vorrei tirargli un cazzotto sul muso, ma poi penso al miliardo di Infantino, e istantaneamente concludo come la colpa non sia dello sciagurato giovanotto. Ripenso a “Bob” di “Piovono Pietre”, quando non ce la fa ad ammazzare un montone, per macellarlo e rivenderlo a 15 sterline necessarie per il suo sostentamento. Io sto con lui, perché il limite del “plusvalore” sta proprio nella nostra umanità. Ecco perché il miliardo di Infantino non mi rappresenta, e non rappresenta nemmeno il calcio. Forse rappresenta solo questa modernità.
Scrittore, sceneggiatore e regista. Tifosissimo granata e già coautore con il compianto Anthony Weatherill della rubrica “Loquor” su Toro News che in suo onore e ricordo continua a curare. Annovera, tra le sue numerose opere e sceneggiature, quella del film “Ora e per sempre”, in memoria del Grande Torino.
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