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tor columnist loquor Julio Velasco: il peggiore dei peccati è non essere felici

Loquor

Julio Velasco: il peggiore dei peccati è non essere felici

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Nuovo episodio di "Loquor", la rubrica su Toro News di Carmelo Pennisi: "C’è profondità a Buenos Aires, quella del tipo dell’essere incompiuti, con quell'insoddisfazione tragica che ti dà l’idea di un malessere che non passerà mai"
Carmelo Pennisi
Carmelo Pennisi Columnist 

“Se cadi ti rialzo. Oppure 

mi sdraio accanto a te”

Julio Cortzar

Una mattina di qualche anno fa. C’è molto caldo in Via della Conciliazione a Roma, e in mezzo ad un caos di lingue tale da farti desiderare un esperanto, con Pedro Brunori, uno dei due portavoce di Giovanni Paolo II, sto cercando di mandare giù qualcosa di fresco, nella speranza di spegnere la calura dentro di me. Pedro è di Buenos Aires ed ha una erre argentina talmente arrotata da darti l’idea di poterci tagliare ogni cosa, persino dei pensieri fuggevoli. Più che parlare stiamo cercando un time out dal quotidiano, e anche il silenzio da dividere con un amico va bene all’abbisogna. Sospira, Pedro, e ad un certo punto dice: “In Sud America dicono che l’affare migliore della vita è comprare un argentino per quel che vale, per poi rivenderlo per quello che lui dice di valere”.  Non replico subito, ma poi gli chiedo: “E hanno ragione?". Pedro ci riflette un momento, e con la mente credo torni per un attimo a casa, in quel posto quasi metafisico che a volte può essere Buenos Aires: “Credo di sì, anche se non sempre. Che valore puoi dare a Borges e a Gardel?". Il calcio e il tango in Argentina sono sinonimo di serietà, forse perché codificano insieme dolore, gioia e desiderio, e hanno il pregio di farti dimenticare per un attimo l’ingiustizia. C’è profondità a Buenos Aires, quella del tipo dell’essere incompiuti, con quell’insoddisfazione tragica che ti dà l’idea di un malessere che non passerà mai. Il River Plate si presenta a Torino 22 giorni dopo la tragedia di Superga, si sobbarca un viaggio di tre giorni per venire a giocare una amichevole contro il Torino “Simbolo”, e non è solo una occasione per devolvere del denaro alle famiglie delle vittime, ma di comprensione per una storia che si era improvvisamente spezzata e impossibile ormai da darle un senso di compiutezza. Gli argentini erano gli unici a poter capire cosa stessero davvero passando Torino e l’Italia in quel momento. Siamo all’autentico topos esistenziale e culturale argentino.

“Se fossi Ministro dello Sport? Per prima cosa mi dimetterei subito perché non è il mio mestiere”, ha detto subito dopo aver vinto la medaglia d’oro a Parigi con le meravigliose ragazze azzurre, rispondendo con ironia ad una delle solite domande un po’ inconcludenti che la stampa italiana rivolge ai vincitori, nella speranza di farli diventare anche feticci politici. Julio Velasco però non lo freghi, se pensi di portarlo da qualche parte dove lui non vuole andare, allora non hai proprio capito niente del personaggio. A volte sono così lontani dal capirlo, che “La Gazzetta dello Sport” è giunto a paragonarlo al personaggio di Nicola Palumbo di “C’Eravamo Tanto Amati” di Ettore Scola, la figura dell’intellettuale comunista disilluso interpretato da Stefano Satta Flores. Il tecnico di La Plata, come detto, è dotato di grande ironia, ed è solo questo che risparmierà il quotidiano di Urbano Cairo dall’essere querelato. Abbiamo il vizio, noi italiani, di abbassare tutto ai nostri desideri e ai nostri schemi, specie quando vogliamo saltare in fretta sul carro del vincitore di turno. E allora devi subito sottolineare Velasco come persona di sinistra, nonostante lui, che di sinistra sicuramente lo è, non abbia mai voluto utilizzare il suo successo nello sport per inondare delle sue idee il dibattito pubblico: “Sono ancora un uomo di sinistra, ma non ideologico. Forse perché lo sono stato troppo in gioventù. Non voglio stare tra le veline intellettuali: per questo in Italia non ho mai fatto politica, tranne quando ho dato una mano a Veltroni candidato premier, perché sapevo che avrebbe perso”. L’ironia “velaschiana” ti atterra, catapultandoti fuori dalla retorica di un Paese divenuto teatro di spot continui, relegato in una sorta di palcoscenico da reality. Il carattere degli italiani può sopportare un tipo del genere solo fino al momento in cui vince o fino a quando ha un potere riconosciuto e riconoscibile. Infatti tutto va bene con il Paese d’adozione, finché la “Squadra d’Oro”, quella che ha vinto tutto tranne le Olimpiadi, non perde al tie-break nella finale olimpica di Atlanta 1996. Ci aveva abituati alla grande il “gaucho” di La Plata, aveva dato al nostro Paese una cosa che non aveva mai avuto in tutta la sua storia: l’irresistibilità. Noi italiani abbiamo sempre avuto il complesso della miniera, del buio e della fatica ancestrale, dell’ottenere un successo per buona sorte o per una buona preghiera. Un successo, si badi bene, sempre con il carattere della casualità.

Prima del vate argentino, non eravamo mai riusciti ad aprire un ciclo nello sport, eravamo semplicemente  i maghi degli episodi. Ubriachi di felicità per la vittoria del mondiale di calcio spagnolo nel 1982, i ragazzi di Enzo Bearzot non seppero qualificarsi per gli Europei francesi del 1984 e uscirono rovinosamente dai mondiali di calcio messicani del 1986 agli ottavi di finale. Prima della “Squadra d’Oro”, c’era la convinzione dalle nostre parti di non essere posseduti dalla mentalità vincente. Si vinceva e ci esaltava oltre ogni limite della decenza e della ragione, si perdeva e ci si deprimeva quasi con cattiveria, andando immediatamente alla caccia del colpevole. Quella squadra per sette anni di seguito fece vivere ad un intero Paese l’ebbrezza del dominio e della responsabilità di avercela fatta a dominare. Era un messaggio al mondo del lavoro, dell’istruzione, dell’impresa, a tutto ciò a cui occorreva un metodo per uscire dal fenomeno episodico. Per questo Velasco per anni è stato corteggiato dalla politica, era riuscito a fare qualcosa d’impossibile per gli italiani. Non c’era giornale o tv che non gli dedicasse attenzione e reverenza, e questa cosa deve aver un po’ illuso il nostro “gaucho”. Risiede in questa illusione  il suo averci provato con il calcio, per esserne risucchiato, masticato, e poi ributtato buttato fuori con tanto di spernacchio sulla stampa, la stessa che lo aveva lodato ed eletto a quasi imperatore. Ovviamente è il calcio italiano ad averci perso qualcosa nel suo averlo rifiutato: vedendo le performance della nostra Nazionale, quanto avrebbe fatto bene a tutto il movimento una cura e una visione alla Velasco. Il fatto è che lui ama sul serio l’Italia, come noi italiani non siamo capaci di amarla. Quando vi giunge nel 1983, quasi in fuga da un regime dittatoriale feroce ormai giunto al tramonto, qualcosa di immediato deve aver smosso quel poco di cotè peronista che c’è in ogni argentino. Nessuno escluso.

Gli argentini che entrano in contatto con il BelPaese, anche per un breve periodo, lo vedono come il sogno di Evita Peron realizzato: “Basta pensare che il patriottismo odora di fascismo - disse il tecnico platense una volta in una intervista -: dovrebbe anzi essere una bandiera della sinistra. Ci consideriamo - parla da italiano. Fantastico - i parenti poveri, siamo sempre nel film “Pane e Cioccolata”. Ci lamentiamo spesso di ospedali e scuole. Ma non rammento un giocatore che ho allenato del quale direi “guarda che asino”. E di ospedali ne ho visti ovunque: se volete, vi spiego”. Per gli argentini l’Italia è quel disegno compiuto di cui sono alla ricerca da oltre un secolo, almeno da quando nel 1872 Josè Hernandez scrisse “El Gaucho Martin Fierro”, poema principe della letteratura atavica argentina. Ci guardano stupiti e si chiedono come noi si sia riusciti a farcela dove loro fino ad ora hanno fallito, e quindi non capiscono le nostre lamentele, il nostro continuo parlar male del Paese in cui viviamo. “Tutto in Argentina è nostalgia dell’Europa”, mi disse una volta un amico sudamericano, e l’attuale tecnico della nazionale italiana femminile di pallavolo si capisce come abbia vissuto il trasferimento nel nostro Paese come un secondo parto, un venire al mondo nel modo giusto. Un finalmente compiersi. Lo innervosisce trovarsi davanti al giornalista idiota che gli chiede se siano più forti le sue ragazze o i suoi ragazzi degli anni '90, non si può chiedere ad un padre di fare una preferenza sui suoi figli. Il suo sguardo è quasi sempre serio, figlio del tango che è un pensiero triste che si balla, per questo è bello vederlo sorridere ogni tanto, ti dà il senso di quanto sia importante essere riusciti ad attraccare in un porto sicuro dopo un lungo viaggio. Lo avevamo colpevolmente dimenticato, da mediocri tifosi da sagra paesana che a volte riusciamo ad essere, ma lui si è riproposto a noi alla stessa stregua di un miracolo, portando sul tetto del mondo un gruppo di incredibili ragazze, orgoglio di una Nazione intera. Dovremmo essergli grati, noi italiani, per averci indicato la via per essere felici, per averci insegnato il valore delle possibilità, per averci chiarito l’importanza del ricominciare da capo, per averci ogni volta fatto presente in che Paese meraviglioso e ricco di opportunità viviamo. Che valore possiamo dare a Gardel, a Borges, a Velasco? A noi la risposta.

Scrittore, sceneggiatore e regista. Tifosissimo granata e già coautore con il compianto Anthony Weatherill della rubrica “Loquor” su Toro News che in suo onore e ricordo continua a curare. Annovera, tra le sue numerose opere e sceneggiature, quella del film “Ora e per sempre”, in memoria del Grande Torino.

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