Torna "Loquor", la rubrica di Carmelo Pennisi: “…ci sono due fatti che mi hanno particolarmente colpito nel nostro rapportarci con lo sport e l’intrattenimento”…
“Una manciata di sabbia dall’infinito
delle percezioni la chiamiamo mondo”
C’è qualcosa che non va nello stato d’animo del Paese, una sorta di fuga dalle responsabilità dell’etica collettiva, ovvero quel patto minimo consigliato ad ogni comunità di persone per non smarrire ogni cosa in un nichilismo travestito da pragmatismo. Siamo nell’epoca in cui il soggetto ha messo da parte l’oggetto, copulando caso per caso con i nostri istinti addomesticati da una comunicazione che si è fatta ostentatamente propaganda del più forte, o dell’innato desiderio umano di avere un feticcio. Conscio o inconscio che sia. Allora visto che il calcio, il nostro sport nazionale, in questo momento si trova tra la vacanza, i ritiri precampionato e il mercato calciatori, vale un attimo la pena fermarsi per provare capire cosa siamo diventati nel nostro comune sentire. Ci sono due fatti che mi hanno particolarmente colpito nel nostro rapportarci con lo sport e l’intrattenimento. Parto con il caso spinoso di Jannick Sinner, complicato da affrontare non certo per colpa sua, ma per un clima tra isteria collettiva e idolatria compulsiva che si è costituita in Italia attorno alla sua figura. D’altronde stiamo parlando di una icona mondiale come forse lo sport italiano non ne ha mai avuti. Merito di uno sport, il tennis, davvero sempre al centro di tutta l’opinione pubblica del pianeta. Probabilmente anche più del calcio, che ha stilemi decisamente più divisivi e che non è riuscito a penetrare veramente in alcune zone del mondo. Il tennis invece è uno sport da celebrità globale sin dall’inizio del secolo scorso, anche in campo femminile.
Avere Jannick Sinner sotto le insegne del “Tricolore” non è solo un orgoglio e un onore nazionale, è la sicurezza di diluire nel tempo futuro una cartolina spettacolare che parlerà anche di noi italiani come Nazione. Il tennista sudtirolese ci regalerà lampi di gioia, a prescindere da ogni tipo di considerazione e sentimento verso di lui. Inoltre Sinner è un parto del tennis italiano tenuto in gestazione per oltre un secolo. Gli appassionati di tennis, quelli veri non gli avventizi da “America’s Cup” tv dell’ultima ora, sanno cosa sto cercando di dire. Il Paese, la stampa, le persone note inclini a fare tendenza, sono impegnati in gran parte a tesserne le lodi. Poi, siccome siamo quel luogo del mondo dove dividersi non è semplicemente una lotta di diversità di opinioni ma un piacere sottile, ci sono anche quelli a cui il ritratto perfetto e da beatificazione istantanea del neo campione di Wimbledon proprio non riesce ad andare giù. Vorrebbero un “Avvocato del Diavolo” per provare a chiarire se si tratti di santità vera. In un altro Paese ciò provocherebbe dibattiti polemici, ma in fondo normali e gestibili. Qui da noi, invece, tutto finisce subito in rissa e in insulto. Insomma, niente che non si sia già visto in altre occasioni, e che ha ispirato a William Shakespeare l’immortale dramma dall’ambientazione veronese “Romeo e Giulietta”. In siffatto contesto per niente sereno e facile, mi è capitato di scrivere un articolo sull’annosa questione delle tasse pagate o meno da Sinner nella sua attuale residenza monegasca.
L’ho scritto per cercare di portare un po’ di chiarezza tra chi dice che le tasse le paga, e chi invece sostiene addirittura che le evade o sta compiendo uno sgarbo alla Patria per averla abbandonata fiscalmente parlando. Dopo un po’, come detto, nella discussione, piena e zeppa di fakenews, partono insulti e offese di tale livello da dover ogni ringraziare il cielo di vivere in un posto dove è assai difficile avere il permesso di detenere delle armi. Facendo una ricostruzione accurata, dati e leggi alla mano, ritengo di aver dimostrato con chiarezza che sicuramente il numero uno del tennis mondiale delle tasse le paga(solo quelle trattenute alla fonte), ma certamente non nella stessa misura(maggiore) di quelle pagate dal suo collega Lorenzo Sonego residente a Torino o dell’altro suo collega Carlos Alcaraz residente a Murcia. Per ragioni di brevità non ripeterò in questa sede i perché e i per come della fiscalità che riguarda i tennisti, quindi non solo Sinner, residenti in uno Stato dove non esiste una tassazione sulla persona fisica: l’argomento di questa analisi non è dimostrare l’ovvio, ma cercare di capire perché viene visto come un attacco al campione italiano un articolo che non lo attacca, ma cerca solo di portare chiarezza su un argomento che qui da noi sta facendo molto discutere. Per quale motivo la verità, se si tratta di un idolo, viene vista come uno sfregio verso di lui? Quali sentimenti profondi stanno attraversando la psiche degli italiani, determinati a difendere qualsiasi cosa considerino un loro affetto, anche in assenza di un attacco? A forse qualcosa di socialmente e antropologicamente collegabile con il “familismo amorale” degli italiani individuato verso la fine degli anni 50 dal sociologo Edward Banfield? L’eccesso di amore può diventare molesto per la nostra mente, procurando anche una distanza tra nostra capacità soggettiva di valutare un oggetto e la sua verità.
Il testo della celebre canzone “Non è Francesca” di Lucio Battisti parla della patologia dell’amore che non riesce a credere all’evidenza di un legittimo dubbio sulla narrazione a riguardarlo, facendo fuoriuscire quel tipo di reazione che ha portato sui social ad insultare Paolo Bertolucci ed Elena Pero, ritenuti colpevoli di non tifare a sufficienza per Sinner durante la loro telecronaca per Sky. Bertolucci, serafico, ha ricordato giustamente quanto il tennis non sia il calcio, e che il godimento del suo spettacolo ha modi più eleganti e obiettivi di procedere, e che solo un matto può pensare che lui e la Pero non abbiano tifato per il nostro tennista. Passando allo spettacolo, e precisamente al film “F1” con Brad Pitt, si sta parlando di una pellicola protagonista nell’aver superato di molte spanne il concetto di “marchetta” al servizio di ogni tipo di marketing; una cosa che personalmente faccio fatica a considerare un film, ma piuttosto un insieme di “reel” montati anche bene, per carità. Ma siamo forse alla questione di gusti, e ognuno giustamente ha i suoi. Nei commenti di giubilo sui social, specie su Linkedin, si è assistito ad analisi su quanto sia stato innovativo il film come operazione di marketing( e qui siamo in situazioni mentali da ricovero), e tutti si stanno soffermando su questioni riguardanti poco sul motivo per cui si fa un film, che dovrebbe essere quello di raccontare una storia e non di mettere in scena strategie di brand o visioni psicoaziendali(ma Linkedin, nel tempo, è divenuto il “Liala fringe” di tutti i volenterosi riformatori degli ambienti di lavoro). Il circo messo su da Jerry Bruckheimer, uno dei produttori più patologicamente disinvolti di Hollywood, racconta una storia dove si chiede davvero troppo alla “sospensione dell’incredulità”, che infatti dopo alcune sequenze del film finisce di sospendersi e pone la razionalità nella condizione di mandare tutti a quel paese, domatore Bruckheimer compreso. In breve: Javier Bardem, proprietario di una scuderia di Formula 1 in crisi nera di risultati e sull’orlo della bancarotta finanziaria, va dal suo vecchio amico Brad Pitt, pilota attempato in disuso ma con un passato appena glorioso del “Circus”, di sedersi su una delle sue due monoposto, per aiutarlo a capire cosa non va e per distribuire un po’ di senno sportivo al giovane pilota sportivo di talento, seduto sull’altra monoposto. Fino a qui niente di male e che non si sia già visto.