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MONDO GRANATA

L’attimo fuggente di Susanna Egri: «Mio padre mi ha insegnato a vedere la luce»

Matteo Curreri
Il documentario sulla vita quasi secolare della coreografa e ballerina, segnata dalla scomparsa del tecnico del Grande Torino

La giornata del 4 maggio 1949, Susanna Egri si stava dirigendo a Parigi. Aveva 23 anni, ma già portava sulla pelle e nella memoria esperienze che non dovrebbero essere augurate ad alcun essere umano: le leggi razziali che inconsapevolmente colpiscono anche lei e la sua famiglia, la guerra e tutta la brutalità che la accompagna. Eventi che avevano messo in secondo piano una carriera scintillante da ballerina, da predestinata. Sul treno verso la capitale francese, la grande occasione. Sul piatto, una proposta di lavoro che potrebbe riconnetterla al sogno.

Ma il fato, il destino che viene spesso associato a quella data nefasta, cattura anche lei da una chiacchierata sgomenta tra due passeggeri dello stesso treno: «Hai sentito? È caduto l’aereo del Torino, sono morti tutti». «Cosa dite!?». Beh, era vero. «Era un tempo orribile. Il pilota credeva di aver già oltrepassato Superga, invece si schiantò contro», racconta Susanna con la voce ancora strozzata, nonostante il tempo, dicono, possa lenire le ferite. Dicono, appunto. «In quel momento credetti che la mia vita fosse finita. Finché c’era mio padre io non ho mai avuto paura di nulla. Sapevo che niente di male mi sarebbe potuto accadere finché c’era lui: un uomo sicuro, luminoso. Ma senza di lui, che ne sarà di me, della mia famiglia? Non potrò continuare a vivere».

L’attimo fuggente, di Gábor Zsigmond Papp e Zsuzsanna Bak, è invece un regalo, un inno alla vita, che ripercorre la storia unica di una donna che porta con sé le innumerevoli sfaccettature dell’animo umano. Una donna che, a un passo dal traguardo di un percorso centenario, ci ricorda il dono di poter fare della propria passione, del proprio talento, ragione di esistenza fino alla fine e oltre, fino a quando non si spegnerà l’ultima fiamma. Una voglia di conoscere, di sperimentare, di studiare che va oltre tutto: oltre le cattiverie del mondo, ma oltre anche i limiti anagrafici. Non è corretto però, perché Susanna Egri non fa minimamente pensare all’esistenza di una simile barriera. Una lucidità disarmante che si riflette nella creazione e nella necessità, ancora oggi, «di portare la frammentazione a un’armonia coerente. È a questo che mi dedico – dice. Cerco di armonizzare tutto ciò a cui partecipo. Se tutti si adoperassero in questo senso credo che vivremmo meglio».

Ma come si fa, dopo tutti questi anni, ad avere questa forza verso la ricerca dell’armonia? «Finché una ha l’energia ed è votata a questo… cos’altro dovrei fare, andare a prendere il tè con le amiche? Io non ho tante amiche, poi il tè del pomeriggio non mi piace neanche…». E le risate del Cinema Romano, dove tanti allievi ed ex allievi erano accorsi per ringraziarla affettuosamente di quanto donato loro. La serietà della danza, in concetti come la disciplina e la perseveranza, si ripercuote nella vita di tutti e di tutti i giorni. Per Susanna tutti dovrebbero trovare il tempo per interfacciarsi con questa forma artistica, formativa e che parla a tutti noi: «La danza è l’unica arte il cui strumento è il corpo vivente e si rivolge ad altri corpi viventi: gli spettatori. La danza è un attimo fuggente: è percepita dagli occhi e trasmessa alla mente, alle emozioni. Finita una danza, non è più possibile evocarla… è sfuggita».

La danza diventa un frame da ricercare, da rievocare. Movimenti in uno spazio che però nell’animo si fossilizzano. La prima figura della sua vita a riconoscerne le abilità è stato proprio il padre, Erno Egri Erbstein, l’allenatore della «squadra di calcio leggendaria di cui è stato l’artefice. Solo il destino ha potuto vincerli», che le diceva: «La tua danza è adatta a un pubblico vastissimo. Tu danzi in modo da farti capire da tutti», come se avesse già colto quell’armonia che andrà a permeare le sue Istantanee.

Un uomo forte, sicuro, a cui la legavano anche sofferenze immani, già da prima di vederlo andarsene di ritorno da Lisbona. Lei, che non ha nostalgia di patria: «In Ungheria mi volevano distruggere, in Italia mi hanno cacciata. A quale patria dovrei sentirmi legata?», ricorda parlando del 1938, quando vennero promulgate le leggi razziali, da cui emerse che suo padre era di origine ebraica ma «nessuno ne sapeva nulla, meno che mai io che ero cresciuta cattolica in un Paese cattolico».

Eppure, fu esclusa da tutte le scuole italiane, suo padre perse il lavoro e fecero ritorno in Ungheria, dove iniziò la sua carriera artistica, prima che i nazisti occupassero Budapest. «Il primo provvedimento fu di obbligare tutti coloro che avevano origine ebraica a essere marcati con la stella gialla. Non ci pensai neppure», racconta. «Cominciai la clandestinità. Venni a sapere dell’iniziativa di un prete cattolico, padre Klinda, volto a sottrarre ragazze alla cattura nazista».

Si rifugiò in un pensionato sotto la protezione dello Stato Vaticano, fino a quando prese il potere una banda di criminali, quella dei crocefrecciati, che irruppero nella villa e le catturarono. «Facevano un giochetto che li divertiva molto. Quando una di noi veniva chiamata al telefono, l’accompagnavano imponendole di invitare l’interlocutore a venire lì dicendole che c’era una festa con ricca merenda… ma guai a fare le furbe».  E un giorno capitò anche a Susanna di essere chiamata: «Era mio padre, a cui cominciai a recitare la litania obbligata, ovviamente in ungherese, ma riuscii a sussurrare una parola in italiano: “Aiuto”. “Ho capito, stai tranquilla” mi disse, e tornai nel gruppo».

Tornata nel gruppo, le spinsero fuori dalla villa, sulla strada deserta, in fila per quattro. C’erano anche sua mamma e sua sorella. «Sapevamo che stavamo marciando verso la morte». Ma il suo bilinguismo salvò la vita a lei e alle sue compagne. Erno Egri Erbstein riuscì a evadere dal campo di lavori forzati dove si trovava e a mettersi in contatto con Monsignor Angelo Rotta, chiedendo un immediato intervento. «È stata una delle pochissime volte in cui una persona è riuscita poi alla fine a far intervenire l’esercito regolare per disarmare i crocefrecciati e riportarci nella villa. Non capivamo neanche cosa fosse successo, ormai sapevamo che dovevamo morire. Di morire in una maniera orrenda, in cui nessun essere dovrebbe essere mai spinto. Mai. Poi la cosa non è finita lì».

Cominciò la fuga di Susanna, della mamma e della sorella, verso Pest, verso la parte della famiglia che le avrebbe messe in salvo. Ma in quel momento si trovavano a Buda e tutti i ponti erano già saltati in aria. «Ce n’era solo uno, dove passava ancora un tram che univa Buda con Pest. Si trattava di raggiungere quel tram. Ma in qualsiasi momento avrebbero potuto fermarci: non avevamo documenti, sarebbe stata la fine». «Siamo riuscite ad arrivare a casa degli zii e io ho avuto l’istinto di andare subito a fare un corso di primo soccorso. Mi è sembrato importante in una città assediata, dove c’erano continui bombardamenti».

I russi erano ormai alle porte della città: la guerra era nei suoi ultimi momenti. Vivevano nelle cantine; non era permesso stare negli alloggi. E mentre lei, da crocerossina, prestava delle cure a una signora, questa le disse: «Ma lo sa che qui ci sono ancora degli ebrei che si nascondono? Eh, ma io ho già parlato col mio fidanzato che è dei crocefrecciati e verranno a fare un bel repulisti». Susanna corre allora su, nell’alloggio, da suo padre, che nel frattempo era evaso clandestinamente: «Devi andartene da qui immediatamente». «Andarmene? Ma dove, ma dove?» «Ti porto io, so dove. Non so come riusciremo a uscire dalla casa». «Ma io avevo le mie insegne di crocerossina. L’ho preso sottobraccio come fosse un ferito e siamo usciti per strada. Non so come, sono riuscita ad attraversare gran parte di Pest e portare mio padre in una di queste case di Raoul Wallenberg della Croce Rossa svedese e ho potuto consegnarlo nelle sue mani. Poi ho dovuto rifare tutto il cammino da sola. E sono anche stata fermata da una pattuglia, ma io avevo dei bellissimi documenti falsi, quindi mi hanno rilasciata».

Qualche giorno dopo arrivarono i soldati russi a liberarli ed «è stato il giorno più bello della mia vita: sul portone di casa appare mio padre, vivo, che ci chiama “Sono qui”». «Questo è stato il momento in cui per me la guerra è finita e tutto quello che è venuto dopo è stato leggero: la fame tremenda, tutte le terribili cose per cercare di ricostruire la città, ritrovare il nostro alloggio, ricominciare ancora una volta la vita. E sono riuscita a farlo con un debito verso la provvidenza. Tanti miracoli mi hanno portato fino a quel momento. E da quel momento tutto ciò che ho fatto è stato per creare armonia e bene intorno a me e la danza mi ha aiutato a farlo».

Ecco perché la danza diventa motivo di vita: la smania di studiare, imparare, leggere e curiosare, insegnare anche a un passo dai cent’anni. «Perché c’è la luce e c’è l’oscurantismo. Mio padre mi ha insegnato a capire dove c’è la luce e a fuggire dall’oscurantismo. Mi sono trovata tante volte sopraffatta dall’oscurantismo, ma ho sempre saputo che dovevo riuscire ad andare oltre».