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Il 25 Aprile del Toro: Bruno Neri, il granata che rifiutò il saluto romano

Vej Turin / Storie di calcio e di calciatori nei giorni della Liberazione: il mediano voluto da Erbstein, frequentatore dei circoli antifascisti, lasciò il calcio per la Resistenza. Morì...

Redazione Toro News

"Per quanto possa sembrare strano, il calcio non smise di essere elemento di quotidianità durante la seconda guerra mondiale. I campionati proseguirono regolarmente tra le bombe e i disagi del periodo bellico per arrestarsi solo dopo l'8 settembre, quando la guerra mostrò all'Italia il suo volto peggiore. Inizialmente, la decisione di non interrompere la Serie A era arrivata direttamente dai piani alti del regime: era necessario non intimorire eccessivamente la popolazione e nel contempo mantenere alto il morale interno; il calcio sembrava più che adatto per lo scopo. I calciatori rimasero quindi nelle città, condividendo con i propri tifosi i bombardamenti, il caro vita e la paura. Con l'8 settembre, però, tutto era destinato a cambiare.

"Nei mesi della repubblica sociale furono molti i team che si squagliarono, perdendo numerosi calciatori (a volte anche solo fisicamente impossibilitati a raggiungere la città della propria squadra). In alcuni casi furono le stesse squadre a sfollare (come per esempio la Juventus ad Alba dal 1942 al 1943: uno spostamento che consentì al divino Meazza – bianconero in quelle stagioni – di scoprire le Langhe e le sue cantine, dove fece incetta di vini e salumi) in altri casi, invece, i giocatori riuscirono a restare in città, non rompendo il cerchio magico tra loro, il club e i tifosi. È il caso del Toro, che per volontà del presidentissimo Ferruccio Novo mantenne i ranghi serrati, cercando di perdere il minor numero di giocatori possibili. Per non rischiare di vedere i propri campioni richiamati alle armi Novo raggiunse un accordo con la Fiat: i granata sarebbero entrati a far parte del mondo associazionistico legato all'industria automobilistica e in cambio, Mazzola&Co, avrebbero potuto fregiarsi dello status di operai Fiat (e pertanto esenti da doveri militari).

"Un accordo che se da un lato salvava la squadra dallo smembramento dall'altra non metteva del tutto al riparo ogni singolo giocatore. Torino tra il 1944 e il 1945 era infatti una città percorsa quotidianamente dalla morte: cadaveri sulle strade, morti impiccati tra i portici e treni colmi di ebrei in partenza da Porta Nuova erano realtà shoccanti con cui i pochi abitanti rimasti in città dovettero misurarsi. Tra le strade e nelle case di Torino i mesi della repubblica sociale furono i mesi della guerra partigiana, combattuta non solo tra i monti e nelle fabbriche. Per quanto divisi da ideali politici e da partiti di riferimento, i partigiani in quei giorni rappresentarono la volontà di un rinnovamento profondo della società, un secondo Risorgimento che fece molta presa anche su calciatori più o meno famosi.

"È il caso di Bruno Neri, mediano granata dal 1937 al 1940. Portato al Toro da Erbstein (via Lucchese) Neri oltre a essere un calciatore del giro azzurro era anche uomo di grande sensibilità e personalità. Il mediano faentino fu uno dei pochi calciatori a disapprovare platealmente il regime, nel 1931, quando prima della partita inaugurale dello stadio di Firenze (oggi intitolato a Franchi) non salutò romanamente le autorità. Frequentatore di circoli antifascisti anche durante la sua permanenza in Piemonte, dopo il luglio '43 partecipò attivamente alla resistenza con il nome di Berni, operando sugli Appennini in prossimità della linea gotica. Vicecomandante del battaglione Ravenna, Berni trovò anche il tempo di calcare il campo di gioco con la maglia del Faenza, partecipando al campionato di alta Italia 1944. Furono le sue ultime partite: il 10 luglio 1944, durante una perlustrazione, perse la vita in un conflitto a fuoco contro una quindicina di nazisti, presso l'eremo di Gamogna.

"Ma Berni non fu l'unico calciatore orbitante nell'universo granata a morire violentemente. Il torinese Vittorio Staccione, scoperto da Bachmann e cresciuto all'ombra di Janni e Sperone, terminata la carriera agonistica aveva trovato posto tra gli operai della Fiat, dove per le sue posizioni antifasciste era stato segnalato all'Ovra. Tenuto sotto controllo venne catturato il 13 marzo 1944 e condotto a Mauthausen, dove morì per setticemia pochi giorni prima della liberazione. Altro calciatore impegnato attivamente nella Resistenza fu Guido Tieghi, scuola Pro Vercelli, che combatté tra i ranghi della brigata Garibaldi nel biellese. Finita la guerra il calciatore, campione d'Italia granata nel 1947, subì un processo con l'accusa di quadruplice omicidio durante la guerra partigiana. Tieghi rimase in carcere fino al 1950, quando venne prosciolto da ogni accusa, riprendendo la carriera calcistica.

"Se quindi la categoria dei calciatori non si sottrasse a dare il proprio contributo alla Liberazione, il calcio continuò a rappresentare, in quei giorni di angosce, una piccola vacanza mentale: accadde così, per esempio, che con i partigiani alle porte di Torino il clima sulla città venisse stemperato da un derby, giocato nei primi giorni dell'aprile 1945, divenuto famoso per le fucilate esplose dalle guardie repubblichine nel tentativo di sedare una zuffa in campo. Probabilmente a digiuno di nozioni per quanto concerne il derby della Mole, i fascisti pensarono che la rissa fosse un evento eccezionale e iniziarono a sparare in aria, spaventando i giocatori, che si ritrovarono stesi sull'erba mani in testa, e il pubblico sugli spalti.

"In quegli stessi giorni in val di Susa undici partigiani sfidarono undici tedeschi in una partitella improvvisata. Severamente redarguiti dai superiori, la sfida tra questi ventidue ragazzi rappresenta quanto di più forte il calcio possa significare: una festa, intesa come sospensione totale del presente, delle proprie identità e dei propri codici sociali; tempo e spazio per il divertimento fine a se stesso, per far esplodere la vita.

"E anche in questo modo il calcio ha accompagnato la Liberazione.