Da quel momento entrano gli altri. C’è chi ha giocato una partita sola, ma è uno di noi, come Garella, e c’è chi ne ha giocate centinaia. C’è chi per il Toro ci ha rimesso un ginocchio, come Zago, c’è chi ha fatto tanti gol, chi ne ha evitati. Ci sono quelli degli anni ’60, i tremendisti doc, gli eroi dell’ultimo scudetto, i protagonisti del fantastico Toro anni 80, i ragazzi del Fila, quelli di Amsterdam, quelli della Coppa Italia, quelli del Toro di Camolese, quelli che solo un anno prima ci aiutavano a tornare su, magari con un gol decisivo come Davide Nicola.
Ce li mangiamo con gli occhi. Cerchiamo di capire se, dentro quelle maglie granata numero cento, siano sempre uguali, se si tengono sempre in forma, se sono ingrigiti, se sono come li ricordavamo. I boati si rincorrono, non riescono a stare dietro a tutti quelli che stanno entrando. I giocatori sono lì e ora, ma di colpo li catapultiamo nella loro epoca. Vullo ha ancora i baffi, ma non sono quelli da cattivo degli spaghetti western dell’epoca, eppure lo rivediamo che va a strappare una palla con una grinta infinita sulla linea di fondo e la crossa per la testa di Claudio Sala per il gol allo Stoccarda. Silenzi ha i capelli un po’ più corti e la faccia tranquilla, ma in un attimo è trasfigurato, con la zazzera sudata, sommerso dai compagni mentre urla dopo il provvisorio 1-1 alla Roma all’Olimpico nella finale di Coppa Italia. Martin Vazquez è Dorian Gray, si è solo tolto i baffi. Anche Policano sembra calato lì direttamente dal 1992 e con quelle spalle enormi potrebbe tranquillamente dire la sua nel calcio ultrafisico di adesso.
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Qualcuno entra un po’ timido, qualcuno più spavaldo. I Tremendisti sembrano più a loro agio, con Cereser e Fossati che se la ridono e con Agroppi che prova a rimanere serio, ma non sta nella pelle. Quando arriva Pecci sembra uno showman consumato, saluta tutti, sa come muoversi. Law, con la sua capigliatura alla Rod Stewart sembra un’icona pop e se la gode con leggerezza, ha vinto un Pallone d’oro, ma non lo fa pesare. Combin mostra il numero tre, come i tre gol nel derby sette giorni dopo la morte di Meroni. Ferrante fa il gesto delle corna. Polster se la ride, come quando canta negli Achtung-Liebe. Anche Giagnoni fa un ingresso alla Pecci, accolto giustamente con un Dio. Non ha il colbacco, però è come se ce l’avesse. E’ bello anche vedere chi non ti aspetti, come Cesare Maldini, cuore rossonero, ma, nello spazio rimasto, del granata ce l’ha di sicuro.
Ci sono anche le lacrime, come quelle di Renato Zaccarelli. Non si direbbe a guardarlo, sembra un freddo, ma è già la seconda volta in poco tempo che lo vediamo piangere. L’altra è in una torrida serata del 2005, la notte della promozione poi vanificata dal fallimento, una delle tante istantanee di un momento tanto fugace quanto incredibile, come quando Gianluca Berti lo prenderà letteralmente in braccio per portarlo in trionfo. Tutto questo non fa che rendere “Zac”ulteriormente immenso.
Ci sono le lacrime trattenute a stento da Sandro Mazzola, quando, nel momento in cui vengono consegnate le targhe ai familiari di chi ha fatto il Toro grande, ma non c’è più (Meroni, Ferrini, il Presidente Pianelli), gli sta per esser datta quella dedicata a papà Valentino. Ci sono le mie quando Roberto Rosato, nonostante i problemi di deambulazione dovuti alla sua malattia, fa comunque il giro finale con tutti gli altri, insieme al suo accompagnatore. Grande, grandissimo Faccia d’Angelo.
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Gli ultimi due a entrare sono Junior e Pupi. Quando entra Leo c’è una scarica elettrica in tutto lo stadio, anche se hanno cannato clamorosamente il suo nome sulla maglia, anche se sbaglia a indicare la curva sotto la quale batte l’angolo che Serena incornò facendoci vincere il derby all’ultimo minuto, è Leo e se Leo dice che la curva è quella, per un giorno è quella, chi se ne frega. E’ a casa sua, fra la sua gente.
Quando tocca a Pulici lo stadio intero ha già cominciato a fare “ooooooo” da qualche secondo per poi esplodere come a un gol, davanti al Toro impersonificato. E’ granata dalla testa ai piedi, ma lo sarebbe anche se lo vestissimo di verde. Racconta lo storico aneddoto di quando diede la gomitata a Ferrini dopo giorni di pugni ai fianchi per costringerlo a tenere le braccia alte e Giorgio gli disse “adesso sei del Toro”. Può raccontarlo mille volte, lo staremo sempre ad ascoltare, anche se ne ha mille altri, come quello di quando, il giorno dello scudetto, i tifosi sollevarono la cinquecento su cui si trova con la moglie per portarla di peso in sede, visto che non si poteva passare in auto, tanta era la folla.
Poi c’è stata anche la partita. Brutta, a tratti bruttissima. La rubiamo: Barone salva un colpo di testa di Marianini così dentro la porta che lo si vede anche dalla curva opposta, ma il gol non viene convalidato. Deciderà Comotto con un gol pazzesco da fuori allo scadere, che festeggerò con gli occhi fuori dalle orbite, perché non puoi ragionare dopo una rete così, ma con un bel po’ di senso di colpa per il modo in cui si è vinto. Quando la gara finisce il cuore è caldo, ma per quello che è successo prima dei 90’.
Riguardare quella giornata fa venire gli occhi lucidi. Sia per chi non c’era quel giorno (Radice, per esempio, a causa di quella malattia maledetta che, per certi versi, lo ha portato via prima di portarlo via realmente), sia per chi invece c’era e adesso, quattordici anni dopo, ci ha lasciato. Come Giagnoni, come Vatta, come Cesare Maldini, come Tomà. Ma gli occhi sono lucidi anche perché da troppi mesi non ci siamo più noi in balconata, in piedi, sulle scalette, col freddo, col caldo, con gli abbracci ai gol, con le maledizioni quando non gira. Questo compleanno saremo lontani, Toro, ma in quello del 2021 dobbiamo festeggiarlo insieme perché saranno 115, Toro mio. Toro nostro. E lo dico ai miei compagni di stadio storici Ste, Dome, Samu e Matte e lo dico a tutti voi: ritorneremo!
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